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American Psycho

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American Psycho

Devo ammettere di non essere un grande esperto di cinema, tanto è vero che le mie presenze in sala negli ultimi anni si possono facilmente contare sulle dita di una sola mano: non mi sono però fatto sfuggire "American Psycho", tratto dal romanzo di Bret Easton Ellis che avevo letto e particolarmente apprezzato qualche anno fa. Ero piuttosto curioso di vedere se il mezzo cinematografico avrebbe permesso di conservare quel clima di insensata follia, vuoto materialismo ed efferatezza che del libro costituisce il punto forte e la più sfavillante attrattiva: un tuffo a capofitto nella New York degli anni ’80 vista con gli occhi di uno yuppie di Wall Street, il protagonista Patrick Bateman, che si muove di giorno in un ambiente spaventosamente superficiale popolato da colleghi dei quali talvolta nemmeno ricorda il nome, ristoranti costosi e fiumi di denaro, per calarsi invece di notte nel ruolo di spietato serial killer impegnato a torturare e massacrare fidanzate, prostitute e ad un certo punto anche un amico. L’alternanza senza sosta di queste due realtà, condita da interminabili intermezzi consacrati all’analisi dell’abbigliamento di questo o quel personaggio e da sporadiche dissertazioni musicali, e l’efficacia della narrazione in prima persona avevano reso il libro un classico, ponendo di conseguenza di fronte ad un compito particolarmente severo chiunque avesse tentato di tradurlo sul grande schermo. L’impresa è ora stata tentata, ma con quali esiti?
"American Psycho"-film non regge il confronto con "American Psycho"-libro. Non lo regge in primis perché da vari punti di vista ha deciso di non affrontarlo fino in fondo, proponendo infatti variazioni sulla storia originaria, puntando su alcuni elementi tralasciandone invece altri e lasciandosi andare in alcuni tratti a momenti sinceramente deliranti e poco credibili, pur sullo sfondo di una vicenda che già di per sé non appare così facile da digerire; ma non lo regge soprattutto perché era impossibile riprodurre visivamente l’impatto verbale a cui il romanzo sottopone il lettore. Al film manca l’imprescindibile prolissità di certe descrizioni, l’assillo maniacale che il Bateman letterario mostra nel renderci partecipi delle sue imprese, delle qualità del suo guardaroba o del suo impianto stereo: e giudicando insignificanti o addirittura ridondanti questi dettagli si compie il più grosso degli errori, perché il mondo che "American Psycho" illustra è esattamente un mondo affatto dominato da superficialità ed inezie, in cui la scelta del ristorante in cui cenare o dell’abbinamento tra camicia e cravatta costituisce per davvero uno dei momenti di più alta riflessione di cui i suoi protagonisti siano capaci. In questo senso la trovata cinematografica dello scambio dei biglietti da visita sempre più raffinati è particolarmente riuscita, va riconosciuto, e coglie esattamente lo spirito originario dell’opera: ma altrove questo va irrimediabilmente perso, e lo spettatore si trova di fronte ad uno spettacolo un po’ troppo statico e troppo poco intricato per essere un buon film poliziesco, ma anche troppo grezzo e troppo poco approfondito per ambire al ruolo di dramma cultural-esistenziale o di satira graffiante del clima di edonismo dell’America reaganiana.
Il ruolo di Patrick Bateman era stato proposto inizialmente a Leonardo di Caprio, che però lo rifiutò. Meglio così probabilmente, perché in tutta onestà stento ad immaginarmelo nei panni di uno yuppie psicopatico: al suo posto è stato selezionato Christian Bale, il quale senza dubbio non sfigura pur alle prese con un personaggio difficile, sempre in precario equilibrio tra normalità e follia.
In ultima analisi, per questa volta il libro vince a mani basse il confronto con il film da cui è stato tratto. Chi lo ha letto non potrà nascondersi una certa delusione per la trasposizione cinematografica; chi invece non lo ha ancora fatto, sarà meglio si indirizzi in libreria piuttosto che al cinema. E poi come stona sentire Bale-Bateman che attribuisce ad Ed Gein una frase in realtà di Ed Kemper: confondere così due serial killer non è proprio da lui, inguaribile perfezionista…

Fabrizio Claudio Marcon

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