E’ seduto sulla sedia dalle solide ma arrugginite gambe di ferro, batte ritmicamente un dito sulla superficie del tavolo di plastica rossa. Le pareti intorno a lui non trasmettono nulla. Sono spoglie, grigie, sporche. Nessuna accoglienza domestica, nessun calore famigliare. Solo.
Sembra guardare il muro di fronte, ma i suoi occhi, dietro gli occhiali, non trasmettono le immagini, è la mente a generarne di invisibili, a volte nemmeno realmente esistenti. I pensieri vagano senza una guida logica, gli permettono di non focalizzare l’attenzione sulla realtà, tengono lontana la tristezza che lui crede di non conoscere, ma che riposa nel suo inconscio.
Si alza, va verso il vano cucina e apre il frigorifero. Estrae un piatto con una fetta di melanzana sopra e lo prepara, senza cuocerlo in nessun modo, come può, lo condisce, lo osserva. Fermo davanti al piatto sembra che cerchi di immaginare la stessa pietanza con un aspetto più nobile, appetitoso. Stessa forma, diversa sostanza. Prende una piccola bottiglia di birra fresca e torna al tavolo. Scosta alcuni testi di canzoni scritti a mano su pezzi di cartone, resti di una scatola di biscotti salati. Uno dei pezzi di cartone cade dal tavolo, ma lui non ci bada e si sistema, si siede.
Comincia a mangiare, solo per sostentamento, non per piacere. Si volta e osserva la tapparella abbassata non completamente. Alcune righe di luce filtrano tra le aste di legno, ma non bastano ad illuminare la stanza.
Nell’intero appartamento si sente solo il rumore del suo masticare e una incessante perdita da un rubinetto del bagno. Una goccia che cade nella vasca incrostata. E si ripete, ricade, muore ancora. Ha terminato il pranzo, ma la birra non è ancora finita. Si alza, reggendo con due dita la bottiglia all’altezza della vita, lascia il piatto sul tavolo, in attesa delle mosche. Si ferma in mezzo alla stanza.
Per un attimo tutto pare ruotargli intorno.
Si sposta in corridoio, fruga nella tasca del suo giubbetto e ne estrae un piccolo biglietto, lo apre, ancora inseguendo con la lingua gli ultimi frammenti di melanzana rimasti incastrati tra i denti. Legge, poi, dopo aver abbandonato il biglietto nel cestino della spazzatura, torna al tavolo. Osserva per un po’ il pezzo di cartone caduto a terra. Sta soppesando la situazione e si chiede se vale lo sforzo di chinarsi a riprenderlo. Sospira e lo raccoglie, lo posa sul tavolo. Prende il piatto ormai vuoto e con la mano libera ridispone tutti i pezzi di cartone come erano prima del pranzo.
Si siede, si rialza, prende uno stuzzicadenti ed elimina definitivamente gli ultimi pezzi di melanzana.
All’improvviso si ferma. Ha sentito un rumore provenire dalla camera da letto. Si volta, resta in ascolto. Nulla. Decide di andare a vedere e attraversa circospetto il corridoio. Nella stanza da letto non c’è nessuno. Il letto sfatto, le bottiglie di birra sul comodino, il tappeto rotondo, sfilacciato, alcuni libri per terra, tutto è in ordine, come al solito.
Beve un sorso di birra e si volta ad osservare i suoi strumenti.
Un piatto di batteria rotto sopra un asta d’acciaio con nastro isolante nero avvolto intorno, non per sorreggerla, ma per darle un’aspetto di oggetto usato, rotto e rimesso insieme senza voglia. Due bacchette di legno, scheggiate, una di esse senza una punta. Una grancassa senza più colore, le pelli ormai trasparenti. Una chitarra nera, con pennellate di vernice bianca sul retro, una corda mancante, un plettro consumato. Un basso in condizioni simili, nero, dalla forma spigolosa, un angolo smussato dall’usura. Al centro, davanti agli strumenti, un microfono si regge su una lunga asta, troppo grosso per il supporto che gli impedisce di cadere.
Ancora una volta, la stanza sembra ruotare intorno a lui.
Resta per un minuto intero in piedi, di fronte alla batteria, al basso, alla chitarra, al microfono. Gli occhi hanno mutato espressione, sembrano più vivi, ispirati. Sembra che la realtà sia entrata d’un tratto, prepotentemente, improvvisamente, ad inondargli il conscio e l’inconscio. Sembra, forse, aver capito tutto quello che prima non credeva possibile.
Alza la mano con la bottiglia di birra e con un lungo sorso la svuota. La getta sul letto. Qualcosa si sta formando nella sua mente, qualcosa sta di nuovo brillando dopo anni di buio. E’ una luce fioca, debole, una fiammella tremolante. Prende la chitarra, guarda verso il soffitto. Per un attimo sembra che un raggio di luce scenda dal cielo, fenda le nuvole, spezzi il tetto e illumini il ragazzo e la chitarra. Come se fosse un naturale pallido riflettore, un cono di fama e di luce. Poi abbassa lo sguardo, la luce immaginaria si spegne e lui comincia a pizzicare le corde. Tutto torna come prima, la sottile penombra ancora ad oscurare la fievole fiamma.
Qualcosa è appena sfuggito, non colto, ma la memoria del ragazzo incespica, si confonde, impegnata fra le note e non riesce a ricordare cosa.
Esistono. Pochi si accorgono di loro, ma esistono. E una volta nella loro vita incontrano sé stessi, ma non ci fanno caso e continuano le loro quotidiane attività, dimenticandosi ben presto del breve senso di smarrimento che una sola volta durante la loro vita li ha inspiegabilmente disorientati.
PUNTO DI NON RITORNO
Esistono. Pochi si accorgono di loro, ma esistono. E una volta nella loro vita incontrano sé stessi.
Emanuele Ravasi