Il festival di Venezia quest’anno ha reso omaggio a due personaggi del cinema italiano che più diversi non se ne potrebbero trovare. Da una parte, per la prima volta ha assegnato un premio a Dino Risi, alla sua carriera fatta di film che non erano mai stati invitati nei festival (neanche i migliori, come Una vita difficile, Il sorpasso o Profumo di donna), ma che i premi li avevano sempre ricevuti dal pubblico. Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate, potrebbe essere il motto di Risi, che non fa più film ma non ha certo perso il gusto della battuta, sia verso la sinistra ("Moretti, scansati e fammi vedere il film") che verso la destra ("I nuovi mostri? Berlusconi, un cantante da crociera diventato primo ministro, Bossi, un ignorante dal fiuto politico).
Il cinema di Risi è fatto soprattutto di scrittura, e deve molto ai suoi sceneggiatori (le coppie Age e Scarpelli, Scola e Maccari meritavano forse anche loro il premio). La sua regia è sempre al servizio della storia, è invisibile, quasi non si avverte (e questo può essere un pregio). Risi racconta l’Italia che cambia, in modo talvolta molto acuto, cinico e graffiante, anche con un certo affetto nei confronti dei suoi personaggi, almeno nella prima fase della sua carriera, mentre poi, dagli anni 70, anche lui prende le distanze da un’Italia più volgare e cattiva. Il suo cinema però rimane sempre alla superficie dei cambiamenti e degli stati d’animo, non scava mai oltre lo strato più superficiale, non ne ha il tempo, i suoi film sono fatti di brevi episodi, lampi di luce che affiorano e poi vengono subito abbandonati.
Proprio ne Il sorpasso, rivisto a Venezia c’è una battuta perfida nei confronti di Antonioni, sempre incensato dalla critica e dai festival, che invece snobbavano Risi. Antonioni era anche lui festeggiato a Venezia, con una retrospettiva di tutta la sua opera, non ancora conclusa peraltro, visto che, a 90 anni il 29 settembre, ha appena girato un episodio di un film collettivo, Eros, che lo vedrà insieme a Almodovar e Wong Kar Wai.
La modernità di Antonioni emerge sempre di più, col passare degli anni. I suoi racconti per immagini sono legati al tempo in cui sono stati pensati, perché ne raccolgono le risonanze, ma lasciano aperte tutte le strade e le interpretazioni, così da essere universali e ogni volta nuovi: blues di stati d’animo e situazioni di crisi che appartengono a tutti gli esseri umani, al di là della loro collocazione sociologica. Antonioni sente il bisogno di affermare le cose il meno possibile e di usare mezzi semplici e ridotti all’osso. Il suo è un lavoro di scavo per scoprire sotto la prima immagine tutte le altre che la compongono e il mistero che si nasconde al cuore di esse; fa emergere la tensione tra persone e oggetti, mette in rilievo i paesaggi umani e materiali, come i luoghi dell’industria prima che diventassero archeologia. Il tempo diventa un elemento della narrazione attraverso le ellissi; il colore è uno strumento per manifestare le esperienze emozionali e percettive; con intuizione quasi profetiche, come le esplosioni di Zabriskie point, o immagini indimenticabili, come i mimi che giocano a tennis senza palla, in Blow up.
Antonioni rifiuta un discorso direttamente storico e politico, esplora il privato come politico con decenni di anticipo sul 68. Gli uomini e le donne (che sono sempre più percettive, sensibili e consapevoli della realtà) esprimono nei suoi film l’incapacità di essere in sintonia con le trasformazioni del mondo; da qui deriva l’instabilità e la fragilità dei rapporti umani, la perdita di sé, del dominio consapevole del proprio agire e delle cose. Sembriamo noi, oggi.
RISI E ANTONIONI A VENEZIA
Gli altri corrispondenti di KU vi parleranno dei nuovi film visti alla Mostra di Venezia e già nelle sale. Ma i festival sono spesso una buona occasione per (ri)scoprire il cinema del passato, in particolare quando il cinema del presente ne rappresenta una copia più o meno riuscita.
Paolo Baldi