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Festival di Venezia 2002

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FESTIVAL DI VENEZIA 2002

Il Festival di Venezia assomiglia sempre più ad una tribuna, dove la politica va in scena, e le pellicole fanno da sfondo. Le polemiche infuriano su Moretti e i suoi "girotondini", qui al Lido a caccia di firme per la manifestazione del 14 settembre. Primo Festival dell’era Berlusconi, che si è affrettato anche qui, a far cadere qualche testa, la prima fra tutte quella dell’ex Direttore Barbera, con la solita accusa di "guardare" troppo a sinistra, per poi affidare in fretta e furia l’incarico, per la prima volta nella sua storia, ad un direttore straniero, il Tedesco Moritz De
Hadeln, uomo di grande esperienza con alle spalle, fra Berlino e Locarno, 25 anni di cinema. Scelta che, contrariamente a quello che pensava il nostro "beneamato" premier, non cambia troppo le carte in tavola, sia a livello di selezione e programmazione delle opere in concorso, sia a livello organizzativo: forse costretto dal poco tempo, il nuovo Direttore non si discosta troppo dal buon lavoro svolto negli anni precedenti. Qualche carenza maggiore si è riscontrata soprattutto a livello strettamente tecnico, con incredibili e troppe ripetute interruzioni di corrente che in alcuni casi hanno costretto la sospensione e lo slittamento di alcune pellicole. Un ulteriore aumento di accreditati o di pubblico, ha costretto, con una frequenza che non era mai stata riscontrata in passato, a dover saltare diversi film per esaurimento dei posti in sala, con conseguenti proiezioni speciali ad assurdi orari notturni o albe sul Lido. L’impressione generale, è che forse il Festival di Venezia, in virtù dell’incremento di pubblico riscontrato negli ultimi anni, avrebbe bisogno di nuove strutture e più stabili, senza assistere al penoso spettacolo di infinite code ai bagni, velluti che si staccano, organismi che, ogni giorno che passa, sembrano prolungare la propria agonia. Per il resto lo spettacolo non muta: feste e mondanità, critiche più o meno allineate, volti più o meno noti dello spettacolo, e molto pubblico appassionato.
Da un punto di vista puramente cinematografico, purtroppo il Festival di Venezia, rispecchiando forse una tendenza mondiale generalizzata, propone prodotti medio bassi, e si rimane soddisfatti se dopo una trentina di pellicole visionate, se ne riesca ad estrarre quattro o cinque di un certo buon livello. Personalmente vorrei segnalare tre lavori, due dei quali probabilmente non usciranno in una normale programmazione. Il film in concorso di Patrice Leconte "L’homme du Train" con una grande interpretazione di Jean Rochefort, che avrebbe meritato sicuramente il Premio di Miglior Attore, vinto invece dal nostro
Accorsi, premiato in maniera affrettata con un giudizio troppo "partigiano"; la pellicola di Philippe Blasband (già sceneggiatore di "Una Relazione Privata" e "Thomas in Love", presentati rispettivamente nel 99′ e 2000 qui a Venezia) "Un Honnête Commerçant"; il film documentario "B comme Béjart" di Marcel Schupbach, diario di uno spettacolo (il balletto "Lumier") messo in scena recentemente dal grande coreografo francese Maurice Béjart, presentato come evento speciale e curiosamente l’unica pellicola a non essere stata visionata da alcun giornalista dei principali quotidiani presenti qui al Festival. Un discorso a parte merita il film di Takeshi Kitano in concorso "Dolls", candidato fino all’ultimo al Leone d’Oro, che riassume in sé un po’ tutte le pellicole del Sol Levante presenti qui a Venezia: il tema della morte, incorniciato da una splendida fotografia, in un film forse a tratti un po’ lento. Come è ormai tradizione per me, mi è impossibile parlare del Leone d’Oro di questa edizione, "Magdalene Sisters", film molto discusso, del regista scozzese Peter Mullan, poiché, così come era successo per il film di Mira Nair dello scorso anno, è stato proiettato nei primi giorni della manifestazione prima del mio arrivo. Un’ultima segnalazione riguarda tre pellicole in concorso assolutamente inutili e francamente brutte: il film tedesco "Fuhrer Ex", il film di Sergei Bodrov "Bear’s Kiss" (vero protagonista in negativo del concorso-critica di Ippoliti, anche quest’anno presente al Lido), e la grande delusione di "Julie Walking Home" della regista polacca Agnieszka Holland.
E fra le ulteriori cose inutili del 59° Festival di Venezia, il "prestigioso" supplemento di "Ciak in Mostra", proponeva tutti i giorni questa domanda tormentone ad alcuni addetti ai lavori: «A cosa serve un Festival?» Io mi sono fatto un paio di idee.
a)
A liberare la propria aggressività. Nella kermesse festivaliera i protagonisti non sono i film, e neppure gli attori e i registi. Lo stress è la costante di tutta la manifestazione. In un continuo gioco al massacro che vede di volta in volta protagonisti accreditati alle prese con carenze organizzative, addetti alle sale nel solito ruolo di difensori dei fortini cinematografici contro l’aggressione costante del pubblico che reclama un posto, veneziani contro le orde barbare di festivalieri nell’irrisolvibile dilemma se difendere il proprio portafoglio o la propria libertà e salute mentale.
b)
A prendersi una pausa dalla propria vita. Il Festival di Venezia rappresenta l’occasione per fermarsi, sedersi (nel vero senso del termine), per una settimana avere la possibilità di isolarsi da tutto, di "mollare" lavoro, moglie, fidanzate, figli, che non condividono con te la tua grande passione. È più di una vacanza, è una fuga.
La grande fuga collettiva che giustifica il fatto che anche il prossimo anno ci saremo.

Leonardi Andrea

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