CAPITOLO I – parte 1
Soldato Wirldolf, è finita questa guerra?
Sì, la guerra è finita.
E chi ha vinto?
Urto qualcosa col gomito, segue un tintinnare metallico. Apro gli occhi. Intorno a me pareti scrostate di intonaco, di lunghezza disuguale definiscono il perimetro della stanza. In una delle pareti, la più ampia, di colore verde, si apre una finestra di due metri per due con grata di metallo infissa all’esterno. Dal mio punto di osservazione intravedo oltre questa una strada e poi ancora un caseggiato urbano. Sono seduto a un tavolo discosto pochi centimetri dalla parete verde, collocato alla sinistra del finestrone. Si irradiano fasci di luce azzurri, che sfrangiano il pavimento e in parte si stendono sul tavolo, allungandosi tra pezzi di pane e briciole, piatti ocra scheggiati. Di fronte a me sta Silvia, che abbassa gli occhi e si alza, si piega sui ginocchi per raccogliere il coltello caduto in terra -credo di averlo urtato; il volto le si inspessisce in una smorfia ora che si tira in alto col palmo sinistro appigliato all’angolo del tavolo. Percepirne il respiro incatramato teso nello sforzo, la sigaretta tra le labbra. La brace della sigaretta brilla ora che lei inspira. Seduta sbuffa di fumo, poggia la posata. Sbriga in fretta una frase. Qualche istante è muta, fissa sul coltello. Rovescia indietro la testa. Ora si conta nelle braccia i lividi, dà a ciascuno un nome proprio maschile. Scandisce ad alta voce sillabe. Che di parlarne lei non ne vuole sapere, che tanto è solo un momento e presto non ce ne sarà bisogno. E la smette. Piega il capo ad angolo. Preso di nuovo il coltello, sfrega lentamente la lama sopra l’incavo del polso sinistro. E io ho la schiena come rotta dal peso dei loro tavolini da bar esibiti nelle nostre strade periferiche, come piegata sotto le loro parole messe in fila che accatastano i nostri ricordi. Nel loro turismo che è pace.
Per dimenticare. Silvia dice di dimenticare e per lei è un che di quotidiano. La sera esce e si siede al bar di là dalla strada, dove ci parla col Turismo di Pace, lei, e ci scopa gonfia di birra da 43 centesimi e poi le resta soltanto da sciacquarsi la faccia, mettere da parte i soldi. Con me che aspetto, sto alla finestra e quando c’è con lei Signor Turismo scendo, lascio aperta la porta. E per le scale io li percepisco i loro corpi imputriditi di alcool aritmici rovesciarsi sul letto, con quello a vomitarle sui seni, segnarle la schiena col coltello e Silvia ridere. Arrivato al porto, scendo i gradini consumati, umidi. Sto incastrato in un angolo, col corpo che si riverbera nell’acqua allagata di luci. Gli occhi fissi nell’acqua e le ombre che si stendono sul tavolo sparecchiato, i piatti accatastati ai bordi. A braccia conserte. La testa tra le braccia. Silvia che mi osserva e in certi istanti sorride, con me che la guardo e un po’ fisso il bicchiere; che quando il vino finisce mi frugo nelle tasche, mi alzo svelto e poi non trovo i guanti. E Silvia tiene tra le sue le mie mani nella luce arancio di questo pomeriggio non arredato. Con tutte le nostre ore stese sul tavolo e i giorni accatastati ai bordi. Con lei che mima tramonti gonfi nelle guance e morde le mie labbra glabre di parole. Sono stanco, le dico, non ce la faccio più. Lei ora ride. Accende una sigaretta. Mi parla di Anne e io fisso la finestra. Se ne accorge, desiste. Restiamo in silenzio. Immagini si accampano oltre la graticola e sono vertigine di colori di parole e di Silvia e di silenzio. Morta Anne, io non sapevo cosa dire. Tutto passava con me fermo, distante. Arrivò un Agosto su questi giorni coperti di terra, quindi un Ottobre. Poi i mesi si confusero e gli anni cadevano su di me stretto alla sedia con i suoni di tutti dentro le ginocchia; con la testa nera di luce e me che sono sordo. Attesi tra i detriti di cemento che il ronzio dei morti cessasse e le ore riprendessero forma. E decisi di alzarmi e alla fine le gambe si piegavano rompendosi in terra. In terra un chiarore di cantina umida si allunga su odori chiazzati di muffa e la muffa è giornali grassi accatastati agli angoli. Con gli angoli che si allontanano e sprofondano. E gli occhi sono rossi di freddo, le unghie strette alla carne. Prego che si alzi il vento, che leghi a sé i giornali, porti via tutte le loro parole nere abortite nel lutto e ripetute fino a che non ne dimenticammo i volti. Con Anne che mi guarda e io l’attendo dentro tutte le mie ferite, la cerco sulla pelle per ritrovarla agli angoli di tutti i luoghi in cui sono rimasto fermo ad aspettare che lei mi cercasse. Con Silvia è diverso. Nessun movimento. Soltanto un continuo incrociarsi come su un treno in cui siamo pendolari alla stazione di arrivo. Quando l’aria sta per sfarsi in acqua è allora che mi alzo e zigzago verso casa. E se la finestra è aperta salgo in fretta le scale, scosto la porta socchiusa. Lei è lì in terra a rotolarsi nel freddo tra cicche e posacenere colmi. Un fascio di luce arancio investe il suo corpo. Fisso i suoi occhi colore della cenere, che colmano di niente il mio sguardo. Mi stendo sul pavimento tra il tavolo e la parete. Sento la carne sciogliersi sotto il peso delle ossa.
Urto qualcosa col gomito. Segue un tintinnare metallico. E con questo siamo a due. Silvia che ride, sbuffa fumo. Silvia che accende un’altra sigaretta.
SONNTAG
Christian Del Monte