Conobbi sulla panchina del parco un’anziana signora. Era piccola, minuta, con capelli grigi e ben tirati raccolti in una treccia. Aveva degli occhi all’ingiù che le davano uno sguardo mite. Parlava con voce bassa e pacata. Fu così gentile da invitarmi a pranzo da lei. Salimmo su una vecchia cinquecento. Arrivammo in una casa in campagna. Appena entrati accese un antico giradischi. Io la seguii e cominciai a curiosare. La stanza in cui mi trovavo era piena di quadri, tele, pennelli, colori. Era un laboratorio. Notai che i dipinti erano viola, bordeaux…Colori privi di luce. Non feci in tempo a vederli tutti. Erano troppi. La signora mi chiamò. Il pranzo era servito. E che pranzo! Tortelli fatti da lei, salumi, formaggi, dolci…Ogni ben di Dio. La signora mi disse: "Vedo che la mia casa ti piace". Io aggiunsi: "Si, è bella. E anche i suoi quadri mi piacciono un casino". Forse per la mia giovane età, mi guardò con tenerezza. Mi chiese: "Vuoi che ti insegni a dipingere?". Io sorrisi in modo impacciato e annuii. Il primo giorno dipinsi liberamente per permettere alla signora di vedere il mio livello. Alla sera ero così stanca che la signora mi ospitò. Dormii da sola su un letto matrimoniale in una stanza con carta da parati rosa antico, un grande specchio e una scrivania. Insomma, ero comoda.
Così, dipingevo e dormivo. Non facevo nient’altro. La signora faceva da mangiare, mi lavava i vestiti e me ne dava di nuovi. Era un tesoro! Le chiesi come mai facesse tutto questo per me. Lei rispose che nella sua vita non aveva mai visto tanto talento. Io ero lusingata, ma oramai erano passati due mesi e non ero ancora uscita di casa. Avevo voglia di vedere il sole e i miei vecchi amici. Glielo comunicai. E la signora accarezzandomi disse che mi capiva. Mi andai a lavare e a vestire bene. Ero decisa ad uscire. Ma quando arrivai nell’atrio invece della stanzetta buia e polverosa trovai una infinità di arcobaleni. La signora aveva aperto le persiane e appeso alla finestra tanti prisma di vetro. Ritornai subito nello studio per dipingere quella meraviglia. Mi ci volle più di una settimana per esprimere una tale emozione. Dopodiché mi prese ancora la voglia di uscire. Andai a baciare la signora. Ma questa volta davanti alla porta mi sorprese un suono di violino. Corsi per tutta la casa. Scoprii la signora: suonava divinamente.
Così, per un anno fui "prigioniera delle sue belle sorprese".
Una sera piangendo mi arrabbiai con la signora. Le chiesi come avesse potuto rinchiudere una giovane come me. Lei mi rise in faccia. Mi chiese se ero forse stata incatenata. Aveva ragione, e così piansi più forte. Dissi che me ne volevo andare. Mi indicò la porta. Io, però, le chiesi se non le dispiacesse. Lei mi rassicurò dicendomi che al mio posto avrebbe comprato un cane. Io balbettai sbigottita: "Ma…ma…io non ho molto talento?". Lei: "No, mia cara. Tu sei qua solo perché sei stata l’unica ad accettare il mio invito". Io, rannicchiandomi sulla sedia, osai: "Ma adesso…so dipingere bene, ho imparato, vero?". Mi rispose che dipingevo come qualunque altra. Le chiesi il perché di quelle bugie. Si giustificò. Voleva rendermi più piacevole il soggiorno. Io presi a singhiozzare ancora più forte e, priva di forze, dissi con un filo di voce: "Voglio morire". Lei mi suggerì con calma di dare meglio un’occhiata alla casa. Io lo feci. Notai che sotto la carta da parati tutto era di legno e c’erano delle file di chiodi. Mi accorsi che il perimetro della casa aveva una forma allungata e particolare. Osservai meglio. Era una bara. Ero già morta.
La casa
Silvia Ceriati