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Luce in fondo al tunnel

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Luce in fondo al tunnel

La luce spietata, irrealmente bianca, irrealmente addosso, scolpisce con crudezza i macchinari della stanza: non nasconde più a nessuno che la vita è sangue e carne, e la morte sofferenza. Attorno al letto del patriarca, cattedra amara di quest’ultima lezione, sono raccolti figli e nipoti, ammaliati dall’orrore.

è come quando riapri gli occhi nella notte, e subito non vedi differenza dal tenerli chiusi – vedi nero su nero, solo buio – vedi
il buio, il niente – e prendi un po’ paura – e allora inizi ad annaspare, con le mani e con gli occhi, in cerca di un appiglio – perfavore, c’è qualcosa cui tenersi? c’è qualcuno in cui guardarsi? – non sentirci è come non sentirsi, e ti sembra di essere scomparso, col tuo mondo, anche tu stesso

Su una sedia, Livia piange. Le aveva giurato di non farla mai soffrire, per tutta la vita, giurato, e ora invece. Mi hai mentito, Augusto. Mi hai mentito. Non avevi contato la morte.

poi ti prende sul viso una brezza che aumenta – come correndo giù da un colle – come su quella bicicletta, con lei che aveva tanta paura, ma tu pedalavi più forte, e ridevi, e ridevi, ed era maggio, il maggio della vostra vita – ti prende, la brezza, con sé, e ti rende un’ebbrezza provata soltanto nel meglio dei giorni – e dimentichi il buio nel quale sei a mollo

Qualcuno pensa, qualcuno prega. Dario sta all’erta, i sensi spalancati a registrare tutto, per salvare in qualche modo questo evento irripetibile che è suo padre, e almeno accompagnarlo verso il nulla, se non si può più trattenerlo qui con noi.

intorno ancora niente – ma dentro ti passano scene dalla tua vita, e ti convinci sempre più che sei in un sogno – il martellino di legno un Natale lontano – tante aste e i primi numeri – un bacio su una guancia, poi su labbra rosate – poi alcuni rossetti, diversi, e nel mezzo dei libri, un pallone, un amico schiantato in un fosso – poi un paio di labbra struccate ti dicono: un figlio

Marco pensa a suo padre, a quell’uomo imponente, e non può ritrovarlo in quel corpo impotente, non può riconoscerlo in quel guscio svuotato, non vuole. Aggrappato alla sedia, in silenzio, Marco piange un estraneo.

rivedi il lavoro, i gemelli, tanti anni di cose e di case – la vita che ormai ti è schizzata di mano, come un sasso scagliato con forza, trascinata da forze sfuggenti – sempre più rapida, sempre più rapida – un’operazione, una laurea, un nipote – la pensione – la routine quotidiana degli ultimi mesi – poi i giorni passati, poi ieri, poi oggi – un dolore improvviso nel petto – finché non la vedi – là in fondo – lontana – la vedi


Prega Giuliana: fa che sia rapida, fa che non venga, fa che non tocchi mai Andrea, e Saverio. Fa che sia un sogno,
fa che sia
tutto
solo un sogno
brutto,
come la Lumaca Grassa, che voleva mangiarmi le trecce, ricordi papà? Mi venivi a svegliare col latte, e poi via nel lettone tra voi…

la vedi – è lontana, ed è piccola, subito, ma paziente va crescendo – da punto si fa stella, poi chicco di riso, poi moneta lucente – una luce – come in fondo ad un tunnel – una luce – e rapito le corri incontro – senza sforzo né scelta – come una sirena ti attrae – come un maelstrom ti risucchia – e se anche hai paura, non puoi non fissarla – e provare piacere – e perderti e caderci

Andrea, che ha tre anni e un morbillo compiuti, pensa solo: che strana famiglia. La settimana scorsa me, questa mio nonno. Gli piace guardarci dormire.

quella luce ti trattiene dal perderti nel buio – come un’ultima cosa da fare – come un conto ancora aperto – tu senti che il buio è la pace, il ristoro, il buon grembo materno in cui scioglierti adesso – ma quel bianco tumore nel nero, quello squarcio nel comodo nulla, spiraglio al freddo del mondo, ti vuole con sé – ti reclama – ti ha – alla fine del tunnel



L’infermiere ha un sussulto, che segue il sussulto stonato del video. D’istinto preme il pulsante, in un attimo accorrono un medico e altri infermieri. Ma non ce n’è bisogno: Augusto apre gli occhi, che parevano persi per sempre, da solo, e come a una amica smarrita da anni sussurra: "Luce."
In un istante sono tutti da lui che lo toccano, che lo chiamano, che piangono più adesso che vive di quando moriva. "Luce," ripete solo Augusto. "Luce." Il medico chiede più spazio attorno al malato, spinge tutti più indietro: ma Livia no, lei non si può. Resti stretta al suo uomo, a quel vecchio che insiste, disperato: "La luce."
"Sì, amore, sì," singhiozza Livia, "la luce."
Ma lui scuote la testa. "La luce… mi chiamava…" Dario ascolta perduto. "Dovevo tornare… là, in fondo…," dice Augusto, poi cerca un altro sguardo e trova la sua Giuliana, e lei capirà: la fissa negli occhi come un visionario, come un pazzo, come un uomo che rivive, la fissa, importante, e le dice: "In cantina…," ansioso, compreso, "la luce… ho lasciato… la luce… in cantina…"
Giuliana annuisce: ma certo, papà, sta’ tranquillo, vuol dirgli in quel gesto. Poi gli rende un sorriso largo tutto il suo volto, e così, oltre al male, inghiotte una lacrima. Poi un’altra. Poi un’altra.
Poi dice: "Lasciamola accesa. Lasciamola accesa per sempre."


Massimi Fabiano

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