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Down

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Down
II
(Elektra, 2002)

I Down sono una band del tutto sconosciuta la grande pubblico, la quale gode però di un notevole seguito underground ed in un certo senso rinverdisce i fasti della tradizione dei cosiddetti ‘supergruppi’: quelle formazioni più o meno estemporanee nate come side project di musicisti già impegnati con le rispettive (e solitamente illustri) band.
Dando un’occhiata ai membri dei Down ci si deve levare tanto di cappello: Phil Anselmo (Pantera), Pepper Keenan (Corrosion of Conformity), Kirk Windstein (Crowbar), Jimmy Bower (Eye Hate God) e l’ultimo arrivato Rex Brown (nuovamente dai Pantera). Come i nomi dei gruppi di provenienza possono eloquentemente testimoniare, se di supergruppo si tratta è bene allora notare che l’ambito è quello del rock estremo.
A ben sette anni di distanza dal debutto, con un lavoro che avrebbe poi totalizzato sulla lunga distanza cifre di vendita assolutamente sensazionali alla luce (o forse dovrei dire all’ombra…) dell’osticità della proposta, i Down si sono ritagliati nelle proprie rispettive carriere il tempo necessario per confezionare un sequel. Forse anche perché subissati da altri impegni, hanno comunque circoscritto il periodo di registrazione al minimo indispensabile: quattro settimane durante le quali, a sentir loro, i cinque si sono letteralmente auto-esiliati dal mondo esterno, troncando ogni contatto con qualunque realtà ad esclusione di quella della sala prove. I Down paiono smodatamente orgogliosi delle circostanze nelle quali II ha visto la luce: nel loro sito il lavoro viene infatti paragonato ad altri storici album rock ugualmente registrati alla velocità della luce, ossia Paranoid dei Black Sabbath, l’esordio dei Bad Company e Presence dei Led Zeppelin (i quali peraltro non impiegarono molto di più a completare il proprio debut album alcuni anni addietro). In particolare, il riferimento al quartetto guidato da Jimmy Page e Robert Plant è insistito e compiaciuto, al punto che sulla copertina di II campeggia sotto il titolo una citazione colta dall’immortale Stairway To Heaven: "a bustle in your hedgerow"…
Sfortunatamente mi trovo qui costretto a far notare come ispirarsi ad un gruppo non sia garanzia di ottenerne gli stessi esiti, tanto più se il nome di battaglia della band presa a modello comincia per Led e finisce per Zeppelin… Anche l’idea che registrare un album in fretta e furia sia sinonimo di grande musica è un po’ balzana, se mi consentite l’appunto: accade così che questo II sia un lavoro senza dubbio di pregio, ma tutt’altro che epocale. Le chitarre distorte, i ritmi opportunamente dilatati e la voce cupa di Phil Anselmo disegnano brani dalla cadenza massiccia e sulfurea: siamo sostanzialmente nella zona di competenza dei Corrosion of Conformity, con un orecchio teso a recuperare (consapevolmente?) qualcosa dei primi Soundgarden o Alice In Chains e qualche momento più apertamente doom. Tutto già sentito, anche perché (e qui emergono impietosamente i limiti di una realizzazione così veloce) non c’è stato lo spazio e forse nemmeno la volontà di aprire maggiormente il registro stilistico: peccato, visto che tanto l’organetto che si affaccia in Stained Glass Cross (traccia estremamente soundgardeniana, tra l’altro) quanto i sapori acustici di Learn From My Mistake sarebbero stati degni di sviluppi più approfonditi.
Così com’è, l’album conferma in tutto e per tutto le premesse, sottoponendo l’ascoltatore ad un esperienza abbastanza monolitica. Non parlerei di un’occasione mancata, anche perché magari così appare solo dal mio personale punto di vista, ma senza dubbio posso ipotizzare che i Down sarebbero potuti uscire con un lavoro molto più vario se solo avessero voluto farlo. Il paragone già accennato prima, con i Soundgarden, può risultare assai esplicativo. Anche il quartetto di Seattle impiegò anni prima di sbocciare completamente e licenziare un capolavoro assoluto come Superunknown: non che prima fossero un gruppo mediocre, tutt’altro, ma solo l’introduzione di qualche elemento nuovo (e, ammettiamolo pure!, di un po’ di sana melodia) fu in grado di trasformare il solido sound precedente in un’alchimia praticamente priva di punti deboli. In quest’ottica, II potrebbe diventare per i Down quello che Ultramega OK fu per Chris Cornell e soci: una conferma del potenziale già espresso, ma allo stesso tempo la tappa di un viaggio che può portare ben più lontano. Soprattutto in questi ambiti musicali, dove le accelerazioni ritmiche e la melodia latitano, è facile cadere nell’anonimato, anche quando il prodotto è ben confezionato e rispetta tutti i crismi: da questo rischio potrebbero non essere esenti dunque anche i Down.
Torno a ripeterlo: per quanto mi riguarda II è un buon album, privo però del coraggio di spingersi oltre. Cinque collaudatissimi professionisti si sono rinchiusi per quattro settimane tra le mura di una sala prove, imbevuti fino al midollo delle suggestioni di trent’anni di hard rock alle spalle, e ne sono usciti con un lavoro massiccio ma troppo ossequioso e decisamente vintage. Credo sia lecito chiedere di più.

Fabrizio Claudio Marcon

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