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P.O.D.

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P.O.D.
Satellite
(Atlantic, 2001)

Una trentina d’anni or sono l’energico manager di un grandissimo gruppo rock negoziò con la Atlantic un contratto a suo modo rivoluzionario: i musicisti da lui rappresentati sarebbero usciti, primi in assoluto in ambito rock, direttamente sulla storica e prestigiosa label invece che su una sua sottoetichetta. Parentesi: quel manager era Peter Grant ed i suoi ragazzi i Led Zeppelin. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, se è vero che oggi (ieri, visto che l’album oggetto di questa recensione è datato 2001) su Atlantic escono addirittura i P.O.D., non esattamente alfieri della musica colta e raffinata che un tempo rappresentava l’orgoglio della Casa… ma i tempi, si sa, cambiano: e non sempre in peggio.
Satellite infatti, su qualunque etichetta fosse uscito, sarebbe rimasto un gran bel disco. Non sono un grande estimatore dei gruppi vagamente à la Limp Bizkit, che mischiano a piene mani sonorità hard rock con ritmi e vocals hip-hop: non quale forma di ritorsione verso il loro successo planetario (mi vanto di non poter essere annoverato tra coloro i quali considerano il riscontro del pubblico come una condanna inappellabile, in grado da sola di trasformare una band fino a poco prima idolatrata in una masnada di venduti…), ma perché l’alchimia risultante dalla fusione dei generi solitamente mi annoia già all’altezza della seconda canzone che mi capiti di sentire. Qui però la storia è leggermente diversa.
La miscela proposta dal quartetto di San Ysidro è veramente esplosiva. Il chitarrista Marcos spiega sul sito della band quanto vari siano gli ascolti del gruppo: se questo magari non si ripercuote sulla loro musica al punto da regalare variazioni eclatanti rispetto al filo conduttore, è perlomeno sufficiente a farla respirare e donarle un appeal maggiore di quella di tanti altri colleghi.
I P.O.D. mostrano di credere in quello che fanno, e lo fanno bene. Il primo singolo Alive, carico di una tensione assolutamente positiva, già metteva le carte sul tavolo; il secondo, Youth Of The Nation (brano dedicato ad uno dei tanti episodi di violenza nelle scuole, occorso proprio mentre il gruppo era in sala di registrazione), rilanciava la posta, mostrando il lato più introspettivo della band senza però scadere nel patetico o nel banale; il terzo, Boom, ancora non uscito, replicherà il fresco assalto sonoro di Alive. Con tre premesse di questo livello, facile attendersi un full length degno di nota.
Il crossover praticato da Sonny (voce), Marcos (chitarra), Traa (basso) e Wuv (batteria) non manca di citazioni originali. Nella traccia Ridicolous per esempio si imbocca la strada di Kingston: l’ospite giamaicano Eek-A-Mouse trasforma infatti il brano in una curiosa esercitazione reggae che ben poco ha da spartire con il resto del lavoro. Celestial e Guitarras de Amor sono invece due delicati intermezzi strumentali, atti ad allentare la tensione per qualche secondo, prima che l’ascoltatore sia scaraventato rispettivamente nella trascinante Satellite (ispirata dalla morte della madre di Sonny) e nella spiazzante Anything Right, ballata con tanto di archi nelle strofe ma con un refrain degno dei migliori Rage Against The Machine. Ospite di Without Jah, Nothin’ è invece H.R., storico membro dei Fishbone, il quale timbra il cartellino proprio nel pezzo più hardcore del lotto: pezzo che però, prima del congedo, fa in tempo a sfoggiare aromi ancora una volta incorreggibilmente giamaicani.
C’è tantissima energia fra i solchi di questo disco. Non voglio qui tirare in ballo la trita e ritrita pretesa di separare i gruppi ‘onesti’ da quelli che suonano un certo genere musicale solo perché è cool: se lo facessi però includerei senz’altro i P.O.D. nel primo elenco. Magari sbaglio, ma mi sembra sia vera passione quella che scorre lungo i sedici brani (l’edizione europea è infatti arricchita da Whatever It Takes, risalente al 1999) di quest’album: e se anche non fosse, mi troverei comunque davanti della musica che indiscutibilmente coinvolge. Si percepisce una bella attitudine nel lavoro dei quattro: suonano massiccio senza appiattirsi, saturano i suoni senza ridursi ai soliti climi lividi da banale hard rock del terzo millennio, trasmettono carica senza abbandonarsi alle sguaiataggini di terza categoria. Non ci sono in Satellite sorprese in grado di far balzare dalla sedia, o innovazioni tali da far sbavare coloro che cercano sempre col lanternino il gruppo capace di rinnovare un genere da capo a piedi: siamo di fronte ad un crossover di accezione, nei limiti della definizione un po’ stiracchiata, piuttosto tradizionale. Tradizionale, ma non per questo scarsamente degno di attenzione: lo dimostrano le aperture stilistiche evidenziate più sopra.
La musica ad alta gradazione energetica occupa una categoria a se stante, al di sopra di ogni differenziazione relativa ai generi: quella dei P.O.D. si può tranquillamente ascrivere a tale novero. Preparatevi ad alzare il volume dello stereo e a lasciarvi travolgere dal ritmo!

Fabrizio Claudio Marcon

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