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Il Ladro di Bicchieri

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Il Ladro di Bicchieri

Calzava sempre un basco, largo e uguale a quelli in uso in quegli anni quand’ancora il nominare "il nuovo mondo", e con in mente tutt’altro che le terre lontane, pareva sortire più effetti di una formulazione di parole magiche e l’immaginazione dei discorsi partiva, in mille e mille sogni.
D’estate era di canapa e d’inverno di panno nero.
Indossava una giacca, a quadri bianchi e rossi, ma non appariscente, con l’acceso delle tinte che si smorzava in una velatura di giallo ocra; e dei bottoni dorati, luccicantissimi, con incisi, uno stemmino e una scritta in bluette, "venn, vid e vins", con l’ultima vocale da tutti grattata via.
Dei pantaloni color erba d’agosto e delle scarpe di pelle con i lacci, di colore marrone bruciato, straordinariamente sempre lucidissime anche se la piggia non si faceva vedere da due mesi, e dei foulard, uno al giorno diverso dall’altro, impeccabilmente abbinati col resto, completava il suo abbigliamento.
Che nella tonalità non conosceva stagione, nel tessuto sì.
Si muoveva sempre come se cercasse ovunque e continuamente il suo bastone da passeggio, finito chissà dove. E il suo viso non dava sentori di vitalità: gli occhi fissi e le palpebre semichiuse, il mento che tastava l’aria davanti e il naso, grande e non deforme, duro come quello di una statua in marmo, intenso e dal profilo aquilino, ma non aggressivo più suscitante istinti bonari che la vista di un rubicondo viso di un romanaccio nel letargo del suo dopo pastasciutta.
Tutto quello che dà traccia delle funzioni vitali del corpo umano, sembrava essersi soltanto concentrato poco sopra la cintola, con il busto che si dava ritmo da tutto resto, rigido, come il collo d’una oca; e nelle sue orecchie, che si muovevano ininterrottamente e disarticolate l’una dall’altra, e più in subbuglio di quelle di un pipistrello finito dentro una stanza piena di amplificatori elettronici e ognuno sintonizzato su una radio del mondo a volume massimo.
Era il ladro di bicchieri.
Ne faceva incetta. E soltanto di quelli dimenticati. Ci girava attorno, per un po’, in quel suo modo così particolare di muoversi, ci si allontanava e poi ci ritornava, finché, come il più esperto dei ladri degli affollati supermercati e con lo stesso delirio e a disagio più di chi lo fa per la prima volta, se lo infilava in tasca.
E, con un occhio aperto come da un monocolo, e dritto e duro, come se sotto le suole avesse un cuscinetto di formiche schiave e ubbidienti già sulla traccia verso casa, spariva.
La prima volta gliene vidi rubare uno, mentre stavo al "Bar Alpi", uno dei pochi locali della mia città rimasto ancora il ritrovo per quella resistenza attiva alla diffusa tendenza di assomigliare ad una delle tante trasmissioni televisive d’intrattenimento di stile pippobaudesco. C’era lì un cocktail di clientela, tra il verace e il narcisismo maniacale, tra eterni bambinoni con il cuore indurito e gorilla-gattini, dove ognuno ostentava il suo "pelo sul petto", tutta esperienza, facendo intendere che non ci avrebbe messo poi tanto nel trasformarsi in un animale in piena combutta per il suo territorio.
Ma lo straordinario ed, ai miei occhi stimolante, era linguaggio, un tutt’uno di innumerevoli ripetizioni di "gheto capio" (hai capito), con eterna suspense sullo svelamento del soggetto del colloquiare, e che mai viene svelato, se non in un fantomatico e continuo "lu, lu" (lui).
E trecentomila "ma va la", ululati, e ancora, e ognuno che cercava di convincere l’altro di essere lui l’unico a stare vicino alla verità. Così, semplicentemente e senza pentimenti e patemi, senza il dopo, e il soggetto sempre latitante.
Il "Bar Alpi" era per me come lo stare in un bazar delle pietre filosofali, infinite e tutte in svendita e acquistabili con un semplice "posso offrire qualcosa?".
Ed era là che io andavo ogni giovedì, poco dopo mezzogiorno, più che mai divenuto la mia fissa: l’avevo inserito nella lista degli abbonamenti gratuiti al periodico, di cui ero direttore responsabile, che usciva in edicola proprio ogni giovedì, e lo avevo assunto quale arena per quello scontro tra il fare e il percepire, la cui conoscenza, a mio pensare, eleva dalla mediocrità, proprio laddove io, in quel periodo, annegavo.
Così, ogni giovedì stavo lì dentro seduto, in incognita, per vedere gli effetti sortiti dalle mie trentadue pagine, a gioire qualora il mio settimanale fosse stato scelto prima degli altri tre messi lì a disposizione, in ipertensione sui commenti, in godereccia estasi se per caso un mio titolo accendeva una discussione e in depressione atomica per l’indifferenza.
Comunque in ansia totale.
Gli vidi rubare il primo, poco dopo che il "Bar Alpi" era divenuto anche la sede di due clubs.
Uno, che si riuniva due volte alla settimana per scegliere delle mete per delle gite-escursioni in alta montagna. L’altro, che si riuniva in altre due differenti sere della settimana, che raccoglieva i tifosi della locale squadra di calcio, che milita nella massima serie.
Tutte e due con dei risultati catastrofici, ma anche momento d’apogeo di quel linguaggio.
I montanari, non riuscivano mai a mettersi d’accordo né sulla meta né sul giorno, e, quelle poche volte che si intesero, scelsero delle domeniche quando la medesima squadra di calcio giocava in casa, così, chi aveva avanzata la proposta, si trovava da solo, ma con la radiolina accesa e l’orecchio appiccicato, ma bramando vendetta alla prossima riunione.
All’altro club, detto biancorosso, invece, andò peggio. Di fresca costituzione, venne prima più che beffeggiato dagli altri clubs con lo medesimo scopo ma che avevano più campionati alle loro spalle, poi, truffato. Accade cioè che, la riservazione di alcuni posti per i soci, e a prezzi speciali, tanto inneggiata per sottrarre iscritti ai montanari all’interno dei clienti del bar, fruttò soltanto l’ultima fila della gradinata. E, siccome lo stadio cittadino era piccolo e sovraffollato e la presidenza della squadra necessitava di entrate, soprattutto in pubblicità e sponsorizzazione, in quella stessa fila vennero eretti dei cartelloni pubblicitari; così, dopo discussioni e minacce di avvocati e pressioni del parroco, tutti gli iscritti finirono appesi, con imbracature moschetti e corde, ai quattro cartelloni la cui inserzione non era stata venduta.
Così, nelle rispettive sere di riunione, i due clubs cominciarono a scambiarsi d’argomento: delle raffiche di "lu,lu,lu" e "gheto capio". I montanari a parlare della squadra di calcio, di classifiche tattiche e goals migliori, e i tifosi della palla in porta che si scambiavano informazioni ed esperienze sulle tecniche d’alta montagna e sui tipi di bevande che favoriscono la circolazione del sangue. E ognuno a pensare a cosa si sarebbe potuto fare di diverso… e il soggetto quanto mai latitante.
Qui, lui fece le sue prime apparizioni: stava lì, puntava un bicchiere, per delle ore, accarezzandolo con la mano, con le orecchie che sembravano due mosconi poco prima della fine dell’estate; e poi sparivano, lui e bicchiere.
C’era anche un terzo gruppo al "Bar Alpi", molto meno numeroso, che si riuniva ogni sera, poco dopo la chiusura.
Si facevano chiamare "i monta in sella e vai, se ancora ce la fai" (tradotto) e il loro linguaggio era quello di un professore di italiano, ma non molto vario: esclusivamente e tutto sull’argomento bicicletta con il manubrio a testa d’ariete.
Erano otto e pesavano tutti assieme per ventitré di normali, assorbivano alcool per duecento persone e avevano un’età fiabesca.
Non c’era un discorrere tra loro, bensì una continua provocazione: tutti uniti contro il gestore del bar, che era stato nel suo passato un gregario importante del grande Eddy Merchx. E dopo ogni sua ribattuta e loro rilancio, l’intermezzo di un giro di vino bianco per tutti, con varianti di macchia di bitter Campari, sino ai primi kappaò: occhi fissi, lingua in trappola e appoggio al bancone.
La sfida prendeva spunto dalla scelta della tattica di squadra, che, a loro dire, era stata sbagliata. Le rifacevano tutte ogni sera e in mille modi, passando dal Giro D’Italia al Tour de France nell’arco di vent’anni e contando anche i micro decimi di secondi che si sarebbero potuti guadagnare in più con le loro tattiche.
Ogni sera, il gestore andava in bestia e incominciava una serie di "gheto capio" gigantesca. Sua moglie, ancora provocante convinta, nonostante le ciabattine di ciniglia rosa con occhi da coniglio, come lo era quando era stata Miss Giro, se la rideva in un gorgheggio di "lu".
E tutto finiva quando veniva proposto di rifare la tappa in discussione con quel "magari la rifacciamo la prossima domenica… e vediamo…". Ma c’era solamente un buonasera.
Quattro di questo gruppo ricoprivano le più importanti cariche del club dei montanari e gli altri quattro quelle rispettive del club calcististico. E, sebbene, fosse cresciuta all’inverosimile la diffidenza e l’ostracismo tra i membri dei due clubs, tanto da evitarsi l’uno con l’altro, da odiarsi come cane e gatto, non ce n’era traccia nel loro discorrere: bicicletta e solo bicicletta, e nessuno che c’era mai montato in cima, se non una volta sola quando l’ha provata all’acquisto, che ovviamente era una delle più costose sul mercato.
Fu lì che lui incominciò a venirci più spesso. E anch’io.
A volte sembrava uno squalo che con la bocca aperta gioca con il suo boccone sfiorandolo appena e girandoci attorno. Era sempre un bicchiere la sua mira. E non sempre lo stesso tipo di bicchiere, perché gliene piaceva uno ogni sera di diverso. E io che non ne capivo il motivo.
Altre volte faceva una piccola puntatina: entrava e poi spariva in un niente.
E sempre un bicchiere che si involava.
"Ma perché? Qual è il motivo? E’ matto… e se non fosse?"
Qualcosa stava per accadere. E io dovevo essere presente. Sinché al "Bar Alpi" ci andavo appena potevo: la mia ansia aveva spostate le sue mire, io a scommettere su quale sarebbe stato il suo prossimo bottino, e ogni volta smentito.
Il "Bar Alpi" era frequentato anche dei giovanissimi e v’era un gioco delle freccette elettroniche, pian piano, si fece avanti l’idea tra loro di formare un club delle freccette. Che si costituì poi, con la proposta di un supertorneo da farsi (cito il cartello) "in una di questo solare, che c’è sempre, e quando tutti si è in ferie".
Forse la domenica?
Comunque. Poi fu la volta dell’associazione "amici della briscola", con finale, credo, alla domenica, poi della "Palla-macchia", che giocavano alla guerra con le pistole giocattolo, presumo, di domenica, e ancora altri gruppi e club dagli scopi e attività da rotocalco delle novità: sempre una di nuova e tutte con le loro riunioni e tutte con proposte da farsi, suppongo, alla domenica.
C’era da impazzirci!
Tanto furono i gruppi formatisi, che le ore previste per ciascuna delle riunioni divennero più di quaranta per ogni sera, così si finì col trovarsi tutti al bar e parlare ognuno di tutto. E il soggetto più mai latitante.
E ognuno degli otto de "i monta i sella e vai, se ancora ce la fai", che ricopriva una carica nella presidenze dei vari clubs e associazioni costituitesi.
Una sera lui entrò, proprio quando il bar stava per chiudere e c’erano dentro quegli otto, il gestore e sua moglie, io e una montagna di bicchieri, perché questa volta gli otto s’era incoranati campioni del Giro di sette edizioni.
Lui puntò un bicchiere, ci girava attorno con quelle orecchie sempre in movimento e con la mano che spuntava d’improvviso, lo avvolse… ma il bicchiere restò lì.
Come? Perché non l’ha fatto?
E parlò, disse queste parole:
"Ma perché questo bar non resta aperto anche alla domenica?"
Accadde che ognuno degli otto incominciò a balbettare e tutti a parlare nello stesso momento e ognuno di un argomento diverso. Poi a incolparsi a vicenda e contendersi la rivalsa della loro presidenze e dei clubs di ognuno. Una baraonda interminabile e il gestore e sua moglie esclusi e la bicicletta dimenticata. E rispuntò il "gheto capio" e il "lu" e il "ma va là", come una battaglia del serial "Gli intoccabili".
Finché gli otto non puntarono tutti assieme il gestore e gli dissero:
"E’ tutta colpa tua. Tu che chiudi alla domenica. Guarda che casino che ci hai combinato…"
E lo vidi: si mise in tasca un bicchiere
Ma mi sorrise.
Uscì, mentre nel bar già si urlava.
Lo rincorsi e fuori gli gridai:
"Ho visto che l’hai rubato. Ti ho visto! Anche tutte e altre volte."
Si fermò e si girò e io preso dalla mia unica curiosità che già mi usciva dalla bocca, incontrollata:
"Ma perché lo fai? Perché rubi tutti quei bicchieri?"
"Perché? Perché io sono un ladro di bellezza?"
"Di bellezza?"
"Sì! Colleziono soltanto bellezza."
"E i bicchieri? Cosa c’entrano i bicchieri?"
"Per ricordarmela?"
"No! Non sta’ così!"
"Non… solo bellezza che si è consumata in un attimo. Ecco…"
"Quale bellezza? Dov’era là?"
"C’era, eccome se c’era. Un discorso sospeso! Il cercare di stare assieme anche quando non si può… Sono giorni che gira là attorno!"
"Cosa?"
"Il voler fare assieme qualcosa alla domenica… è questa la loro bellezza?"
"Non sono d’accordo!": dissi.
Lui mi guardò. Spuntò il bicchiere… lo scagliò per terra, in mille frammenti.
"E’ vero! Non ce n’era. Ma era lì d’attorno, comunque… E’ un po’ di mesi che gira da queste parti…"
Mi avvicinai.
"Sono vecchio! Ecco… ormai mi sono arrugginito. Ero più bravo una volta, lo sa? L’annusavo anche a distanza, dappertutto. Ero bravo… io una volta. E adesso… adesso non ce la faccio più, non sono più quello di un tempo. E lei? Lei reclama… la mia collezione per dio, deve vivere ancora…"
Mi guardava e io gli stavo davanti e lo pressavo oltre i suoi piedi.
"Vuoi capire vero?"
Io zitto, ma deciso.
"Bene! Ti mostrerò la mia collezione. Ho i pezzi migliori. Vieni? Ti dirò."
"Cosa?"
"Ti mostrerò tutti i miei bicchieri, i più pregiati, la mia collezione di bellezza… Ma bada, costa caro questa curiosità"
Già lo precedevo, anche se lo vidi andare dalla parte opposta.
Andammo a casa sua.
Era dodici, tutti i fila, un bicchiere diverso dall’altro e non in una bella vista, messi dentro un enorme armadio, ma quando la porta venne aperta, mille luci, piccolissimi luci come quelle di un teatro, si accesero là dentro e un sfavillio di riflessi si movimentò.
Lui ne prese in mano uno, uno di quelli usati per la birra, misura una pinta, quelli che si trovano nei pubs stile inglese, come un tulipano e di vetro sottile e leggero, ma grande e che non si sopporta di vederlo vuoto, se non se ne ordina un’altra.
Lo guardò e me lo porse:
"Ecco. Questo il primo!"
E indicandomene uno che mai avevo visto, mi disse, con rabbia e rancore:
"E quello è l’ultimo! Tanto, tanto… tanto tempo fa."
Ne sfiorai uno per berci il cognac e poi uno da vino, basso e di vetro grosso, un "ombra", e gli toccai una spalla.
Disse:
"Dio… com’era facile una volta…"
E iniziò a raccontare…

Giancarlo Gandini (continua)

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