Immaginare la città come un insieme di luoghi, posti con case, muri, costruzioni è come dire che un film è solo una serie di fotogrammi. Commettiamo un errore grossolano.
Molti anni fa una fotografa abbastanza famosa di cui non voglio sforzarmi di ricordare il nome aveva realizzato una mostra sulle grandi metropoli, circolata per molto tempo in molte città Italiane. Mi aveva affascinato quella sua idea di rappresentare gli aspetti strutturali da Tokio a Torino, Roma, Parigi, Berlino e poi non so più dove attraverso tante immagini messe in fila; complice la bellezza in sé delle foto si potevano scorgere storie che sembravano davvero tutte uguali, lo stesso tipo di presenze, impressioni, sensazioni. Per dare il giusto spessore a questo ampio reportage erano stati travolti nel delirio pareri ed opinioni di carattere antropologico culturale per dimostrare in qualche modo la più banale delle tesi geografiche, che tutto il mondo è paese.
In questo senso la metropoli è anche assolutamente fuorviante, sembra che in qualche modo spinga l’osservatore a giungere ad affrettate conclusioni. La città è fatta di gente, sono le persone che si muovono al suo interno che ne definiscono le caratteristiche, la struttura, gli stessi confini.
E’ la gente, che nella sua più completa varietà determina il ritmo dei cambiamenti e definisce continuamente in modo apparentemente casuale i percorsi che collegano i luoghi.
Allora lavorare sulla città, cercarne l’identità significa lavorare sulla gente, i passanti che attraversano la strada. Ma se per fare questo si intende mantenere un punto di vista giornalistico, di esclusivo distacco, inevitabilmente si finisce per cadere in un equivoco di generalizzazione; questo è indipendente dalla professionalità, si tratta di un problema legato al punto di vista.
La capacità di discriminare le componenti che costituiscono gli eventi si riduce se la scala con cui osserviamo questi eventi aumenta. Rapportarci alla storia mantenendo come riferimento i grandi eventi, i grandi momenti, le cose che "sono passate alla storia" implica per forza di cose omettere una serie di dettagli insignificanti che sulla scala temporale finiscono per circoscrivere delle specie di trappole. Si tratta di incongruenze o imprecisioni che rendono estremamente difficile trovare linearità nella storia recente e soprattutto trovare spiegazioni non retoriche che abbiano riscontro con la visione della metropoli ai giorni in cui viviamo.
I particolari, i dettagli sono elementi di raccordo che possono essere messi a fuoco soltanto rinunciando alla posizione privilegiata di osservatore fuori dalle parti.
Corso Vittorio e Via Po, Piazza Castello, Piazza Statuto, Via Nizza, Porta Nuova, i cancelli della Fiat e il Lingotto, la zona degli impianti Teksid. Sono luoghi che si trovano a Torino, che si chiamano "Environment Park", "Centro storico" – la quasi mitologica ZTL, Zona a Traffico Limitato -, "Centro Conferenze Lingotto" – che ha praticamente sconfitto la vecchia zona Torino Esposizioni -. Ma sono stati anche teatro di ben altri eventi ed hanno avuto facce completamente differenti, anche se quasi si è perso il ricordo. Eppure eravamo soltanto alla fine degli anni cinquanta ai tempi dei fatti di Piazza Statuto; ed era la fine degli anni ottanta quando il Lingotto rappresentava l’ultimo atto della propria fine e non sono passati dieci anni quando attorno ai Murazzi e al Valentino nascevano quasi spontanei i gruppi musicali delle Posse.
Non stiamo facendo del nostalgico restauro culturale.
E’ che comunque e dovunque ci muoviamo, facendo da contrappunto alla sedentaria immobilità della campagna la città si scopre come uscendo dalla propria crisalide e presenta ad ogni sua stagione il risultato delle proprie mutazioni. Dietro ci sono persone, un fiume di persone che ha calpestato i pavimenti e ha costruito passo dopo passo la propria storia.
Chi circola per le strade non è gente tutta uguale; questo non significa né fare discriminazioni né razzismo ingiustificato. Ci sono gruppi, tribù tutte differenti che coabitano gli stessi marciapiedi e le stesse piazze non sempre condividendo gli spazi di buon grado. La prima necessità è quella di trovare un punto di osservazione comodo ed entrando nell’ottica di lasciarsi coinvolgere, di avere la disponibilità necessaria (che poi non è per niente un’esperienza negativa, anzi) allora bisogna entrare dentro la gente, fino a farsi riconoscere. Si riesce a vivere dall’interno e questo è sicuramente il miglior punto di osservazione, quello che ti permette di discutere con loro i motivi, le idee e i sogni.
Il presente e la sua storia
Enrico Miglino