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Mick Jagger – Goddess In The Doorway

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Mick Jagger
Goddess In The Doorway

(Virgin, 2001)

Mick Jagger è uno di quei monumenti musicali del passato impegnati in una battaglia senza quartiere contro il tempo che passa. La categoria non è affollatissima ma neppure deserta, se è vero che al leader dei Rolling Stones possiamo affiancare al volo almeno i nomi di Bob Dylan, di Steve Tyler e dei suoi Aerosmith o ancora di Tom Jones. Negli anni il primo è rimasto più o meno fedele alle proprie origini; i secondi hanno virato vieppiù verso musicalità commerciali che garantissero loro un successo ed una visibilità la quale non ha nulla da invidiare alla gioventù del gruppo; il terzo ha invece beneficiato sullo scorcio del secolo di una popolarità imprevista ed imprevedibile, riuscendo nell’impresa di riproporsi a tanti anni di distanza dal proprio periodo d’oro in vesti rinnovate, agganciando il treno della musica trendy ed easy listening con un acume ed un’apparente naturalezza che solo pochi altri ‘vecchietti’ sono stati capaci di sfoggiare. A quale modello possiamo accostare allora il Mick Jagger di Goddess In The Doorway? A tutti ed a nessuno…
Troppo compromesso con le atmosfere modernamente pop per essere assimilato al folksinger Dylan, ma allo stesso tempo troppo rolling stone nell’intimo del cuore per potersi calare nei panni dello Steven Tyler da hit parade e tantomeno in quelli di Tom Jones, Jagger ha confezionato un album che in fin dei conti non è ne’ carne ne’ pesce ma in compenso sa vendere benissimo la propria merce.
Per ottenere tale risultato Mick non ha tralasciato alcun dettaglio, a cominciare dalla scelta dei brani: a fianco di episodi più sinceramente rock ne sfilano infatti altri insidiosamente dance. Ovviamente nel primo caso non stiamo parlando del rock degli Stones d’annata, così come nel secondo non ci stiamo muovendo dalle parti della dance d’avanguardia. All’età che si ritrova Jagger sa perfettamente come gira il mondo, e conosce altrettanto bene il trucco per accattivarsi una fetta di pubblico abbastanza ampia: lasciare da parte gli azzardi e gli estremismi (non necessariamente per ruffianeria, perché concediamogli che alla soglia dei sessant’anni abbia anche perso almeno un po’ del ribellismo giovanile… suvvia, è umano pure lui!), concentrarsi sull’aspetto melodico ed unire al tutto la sua ancora splendida voce.
Il problema dei rockers che si buttano sull’elettronica è da sempre il medesimo: i risultati non sono mai abbastanza significativi in ambito dance per conquistare i fedeli di tale genere, ed al contempo mortificano i fans di vecchia data che vedono i propri eroi tradire la bandiera senza motivi apparenti. Forse è anche per questo che Mick, pur non resistendo alla tentazione di mettersi alla prova con scenari musicali più giovanilistici (che non gli appartengono affatto), non ha poi indugiato eccessivamente su questi tentativi: l’ascoltatore ne può ascoltare il frutto solo in una manciata di tracce, quali ad esempio Gun. Tutti noi possiamo arrivare a comprenderlo, considerando che fa rock da quarant’anni e forse non può più esimersi dal cercare qualche nuova sfida; ma non tutti forse saremo altrettanto pronti ad approvarlo
Avevo accennato al fatto che Jagger non ha tralasciato alcun dettaglio nel tentativo di rendere quest’album il più possibile… mi verrebbe da dire "commerciale", anche se lo voglio pensare inteso come "fruibile da un pubblico più ampio" e non semplicemente come "propinabile a destra e a manca". Ebbene, un’altra mossa dell’autore è stata quella di convocare una schiera illustrissima di ospiti tra cui spiccano Pete Townshend, Joe Perry, Lenny Kravitz, Bono, Rob Thomas e Wyclef Jean. Ovvero, nell’ordine: due altri vecchi draghi del rock; tre esempi del potere di penetrazione che tale musica possiede quando non si vergogna di ibridarsi con sonorità apertamente pop; e, last but not least, un eclettico artista dei nostri tempi capace di librarsi fra la musica black ed il rock senza mai smettere di far capolino nelle charts. La scelta sembra essere stata a dir poco significativa…
Una cosa a Jagger va riconosciuta, ed è che Goddess In The Doorway rimane un album di impronta rock. Non vi si respira l’aria fumosa e stantia degli scantinati che le cronache più o meno romanzate da sempre indicano come cornice imprescindibile dei primi passi dei Rolling Stones, così come di tutte le altre bands storiche; ma anche se parecchio annacquato dall’elettronica lo spirit of rock’n’roll aleggia ancora tra i solchi del lavoro. E’ un rock patinato, curato e rifinito: il tipico prodotto di un artista decisamente maturo (se lo apprezzate), o forse già pensionato a sua insaputa (se invece pensate che abbia calcato le scene ormai a sufficienza)…
In conclusione permettetemi un’ultima nota. Goddess In The Doorway è un album che non passerà alla storia, e su questo credo tutti possano trovarsi d’accordo. La domanda che però non riceverà mai risposta è "come sarebbe stato accolto, recensito e venduto se il suo autore fosse stato il signor John Doe invece che Mick Jagger?". Perché portare quest’ultimo nome può facilitare (difficile immaginare che un qualunque album di Mick possa passare del tutto inosservato) ma talvolta può anche rappresentare un’ipoteca troppo pesante…

Fabrizio Claudio Marcon

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