(Sony, 2001)
Problema: come mantenere le aspettative dopo aver dato alle stampe un lavoro del calibro del precedente Make Yourself? A volte produrre un album così significativo presenta risvolti inaspettatamente problematici: replicare l’ispirazione di un momento oltremodo felice è uno scoglio contro il quale si sono arenate nel corso degli anni decine e decine di band; alcune mantenendo comunque la linea di galleggiamento, altre sprofondando invece nella mediocrità più spietata e talvolta finendo per sciogliersi. Come se la sono cavata allora gli Incubus?
Nice To Know You rappresenta il primo assaggio di questo nuovo CD, e tanto per gradire si muove nelle stesse coordinate del predecessore: musica muscolare ma mai esagerata, potente sebbene relativamente pulita, attenta all’aspetto melodico senza scadere nella ruffianeria. Commenti che possono essere riportati alla lettera anche per la seconda traccia, Circles, guidata in questo caso da un gran bel giro di chitarra che pare avvolgersi su se’ stesso a spirale e sfocia ad un certo punto in una delle caratteristiche pause di tranquillità che spesso si aprono come squarci nel tessuto dei brani.
Se fino a qui ancora non c’erano motivi di saltare sulla sedia, questi vengono forniti dalla fantastica Wish You Were Here: melodica a sufficienza per meritarsi la palma di singolo trainante, perfino struggente nei tratti di requie, ma anche poderosa e trascinante quando i ragazzi prendono l’abbrivio del ritornello e si muovono all’unisono senza la minima sbavatura. Il posto che in Make Yourself era di Drive qui spetta di diritto a Wish You Were Here, la quale rispetto all’illustre antenata è più vigorosa ma almeno altrettanto leggiadra.
Una nota di percettibile malinconia ci introduce in Just A Phase, ballata limpida ed autunnale che riporta al lato più meditabondo ed introspettivo del gruppo; ma che al contempo non manca di ricordarci che abbiamo pur sempre a che fare con gli Incubus, quando invece di degradare pacificamente verso la conclusione che ci aspetteremmo regala piuttosto una violenta sferzata finale. 11am è un’altra ballata, forse più melodrammatica delle altre ma ancora una volta elegante e contenuta nel suo svolgersi.
Lo scenario cambia con Blood On The Ground, sotto il cui titolo bellicoso si cela un hard rock sanguigno che pure non rinuncia a squarci vagamente psichedelici.
Mexico è un delicato quadretto per chitarra acustica sul quale la voce dipinge un triste e glaciale atto d’accusa, diretto all’egoismo di un anonimo destinatario.
Le fa seguito Warning, uno dei brani a mio avviso più convincenti dell’intero album: un crescendo strumentale e vocale forte dell’abituale equilibrio tra forza e sensibilità, arricchito da una linea melodica particolarmente riuscita.
Echo prende le mosse da ambientazioni musicali esotiche, ancora una volta introspettive e dolcemente melodiche. Pare quasi impossibile che ad interpretarla siano gli stessi cinque musicisti propostisi poco prima con una Blood On The Ground, ma a questo punto saranno in pochi a non essersi ancora accorti del fatto che proprio la versatilità è uno dei punti di forza degli Incubus.
Si torna ad alzare il volume per Have You Ever, nervosa ma nel complesso non proprio memorabile cavalcata quasi al limite di certo crossover classicamente inteso.
Are You In? è l’intermezzo spigliato che serve per allentare la tensione, di presa talmente facile ed immediata da sconfinare quasi nel pop ma sempre personale e gustoso: immaginatevi gli ultimi Sugar Ray alle prese con del materiale un po’ più ‘colto’, tanto per dirne una.
Se sentivate la mancanza di qualcosa di punk, la successiva Under My Umbrella potrebbe farvi pensare di aver trovato quanto stavate cercando. L’impressione però perdurerà solo una ventina di secondi, perché la vera anima del brano è ben più sperimentale e, permettetemi il termine, disturbante.
Arpeggi vagamente orientali aprono la conclusiva Aqueous Transmission, che per una volta si rivela essere proprio quello che sembra: un commiato in punta di piedi, una lunga ballata minimalista e sussurrata a cui l’arrangiamento d’archi regala un tono di squisita e pacifica serenità.
A questo punto devo tirare le somme, e mi tocca pertanto dire che Morning View non è riuscito a colpirmi tanto quanto fece Make Yourself. E’ un ottimo lavoro, su questo non ci piove: di band di questo calibro in circolazione non ce ne sono molte. Il problema di quest’ultimo album però è l’uniformità. Laddove Make Yourself miscelava con irraggiungibile sapienza influenze diversissime e le distillava in brani legati da un invisibile ma sempre evidente filo conduttore, Morning View sembra più un raccoglitore di esperienze altrettanto varie ma più scandite. Di per sé non è un difetto, intendiamoci. La proposta musicale degli Incubus qui è solo un po’ meno focalizzata, ma non perde per questo il suo fascino. E’ come se le anime presenti nella band, precedentemente riunite e raccordate a creare un profilo unico e personalissimo, fossero state qui lasciate a briglie sciolte, con il risultato di dare origine ad un insieme forse più vario ma un po’ meno coerente.
Questo però, è bene che lo ripeta, non inficia per nulla la qualità dell’album, che è e rimane altissima. Lo scoglio di cui parlavo all’inizio della recensione non ha intralciato più di tanto la marcia degli Incubus: di questo possiamo rallegrarci tutti.
Incubus – Morning View
Fabrizio Claudio Marcon