Il locale riverbera all’unisono del ‘rock’ della sua anima belligerante e delle coscienze rockettare altrettanto incazzate che lo popolano.
Musica ribelle ad alto volume con note psichicamente consolatrici per spiriti falliti e travagliati. Note angeliche e perverse insieme, solo angeliche o solamente perverse per quelli che nell’ascolto riescono a trovarvi differenze inesistenti, a percepire in modo personale il medesimo soffio vitale dandogli la stessa diversa inclinazione errata della propria mente costituita.
Il locale è piccolo, un covo angusto, un sottoscala, una cantina, un rifugio, un sotto-pub, un background, un… sotto. E’ come deve essere e solo può essere: ricolmo di riflessi che rinnegano lo status quo; carico di rossi rischiosi, di blu ritorti, di gialli sciacquati e di verdi irriverenti; rifluente di ripudi e di impulsività, così neutrali nella loro ricercata coscienza ‘out’.
Il locale è un ricovero, un asilo, un nascondiglio, un mondo a se stante dentro ad un altro mondo… che è dentro ad un altro mondo… che è dentro ad un altro mondo… che è… e che non esiste.
Zoomster, è questo il suo nome. Non del locale ma dell’essere al centro del palco, anche se chiamarlo palco non solo è una parola grossa, ma un’assurdità bella e buona.
Lo noto ora perché gli sono giunto vicino, o forse perché solo ora mi rendo conto di essere lì. Nel mucchio, è come scorgere una solida quercia immota, circondata da una foresta di salici intristiti i cui ramicelli e propaggini sono in preda al vento battente.
Riesce a malapena e con lentezza esasperata a scuotersi, prendendo un ritmo e tempo assolutamente asincrono con la musica. Mi ricorda sia una rock star in età avanzata, soprappeso e strafatta, sia un pugile suonato buttato sul ring per l’ultimo incontro della sua carriera da incassatore.
Ma è buono. Zoomster è buono, lo so.
Il suo aspetto è quello che è, può ingannare la vista, ma solo quella. E’ nero, borchiato, incatenato, ferroso, lussureggiante e tumido di tutte le caratteristiche del cattivo da film. Non ha la testa sulle spalle ultrapossenti, ma la faccia è rugosamente stagliata sul torace in un tutt’uno di cerniere con il giubbotto chiodato, un viso faticosamente visibile se non a momenti con il cangiare della caotica illuminazione.
Mi ha salutato? Forse.
Dietro di lui non c’è spazio per molto. Dietro di lui c’è Liliflag.
Siamo giù dal palco, siamo fuori dal caos, siamo nelle retrovie. Una tendina di fili di plastica, così distanti l’uno dall’altro da poterci passare attraverso senza toccarli è quello che divide in due parti teoriche un ambiente impossibile da dividere. Eppure… è così. Di là la bolgia, di qua la calma relativa con il casino in sottofondo, due presenti contigui ad una distanza di anni luce. La giacca e la tasca. Il film e la regia.
Liliflag è alle percussioni, è alle luci, è alla consolle.
Liliflag, cuore e motore del locale, in cabina comando.
Non l’avevo mai visto o incontrato, ma so già chi è: un diavoletto batterista. Un demone minore totalmente rosso, brunito e amaranto, con poche striature fulve e inflessioni vermiglie e tumefatte, tonalità classiche infernali, un essere appena visibile nella luminosità appannata dirimpettaia la festa.
Piccola, appuntita a mento ed orecchie, con corna minute, occhi stretti e baffetti corvini unti di inflessioni bluastre, la testa è la ‘cima’ di un corpo/non corpo, un intricato e indescrivibile insieme tortuoso di involti cilindrici e multiartiche trivelle dall’aspetto plastico, scivoloso e gonfio. Ricorda i palloncini lunghi e stretti carichi di elio con cui puoi fare le forme di animali.
Mi è simpatico Liliflag. E’ timido, buono e oltremodo sensibile, batterista come me, schivo e mestamente fuori dal caos e dalle mode, allergico al tripudio lì vicino di cui è forzosamente parte integrante.
Comincio a ricordare qualcosa, è un pizzicare dietro la nuca che mi mette in eccitazione il cervello. Immagini a sprazzi di mostri e portenti, Zoomster e Liliflag, amici miei…
"Chi sono io?" Bella domanda, ma al momento è un quesito irrisolvibile.
Questi strani e singolari esseri, qui, dentro il locale sono tutti amici miei. La mia memoria mi tradisce ma l’istinto è forte, suggerente di verità, e li riconosco come miei compagni. Mostri e deviazioni, mutaforma e musicanti.
Buoni. Il resto non è importante, mi tornerà in mente.
Liliflag è felice di vedermi e mi assale con un abbraccio e mordicchiandomi. Sono contento, un po’ immemore ma felice.
Ora però, immediata percezione, c’è qualcosa che non va. Guardo in su mentre Liliflag sta tornando a smacchinare sulla consolle. E’ un sentore più che velenoso il mio, sempre istintivo in mancanza di tutto il resto.
E’ glaciale la sensazione di ingiustizia imminente mentre da sopra la scala stanno scendendo degli uomini in nero, e tremo per i miei amici mostri, incolpevoli di tutto oltre al fatto di essere come sono e per questo vittime designate di un sistema balordo e ideologicamente malsano.
"No! No! No! Non voglio. Non dovete fare male ai miei amici solo perché sono diversi."
Anche se non mi ricordo chi sono io, so indubbiamente chi sono i buoni, sono i mostri, e io sono buono con e come loro. Quelli normali vestiti di nero, con gli occhiali da sole e i capelli a spazzola sono i cattivi.
"Il pensiero è mio! Il sogno è mio! Perché forse sto sognando… Mio! Voi oggi non ucciderete nessuno!"
"Io distruggerò i M.I.B.!"
Sono pieno di convinzione rabbiosa e blocco l’immagine degli uomini in nero in discesa dalla scala al piano superiore. L’avevo già bloccata a dire la verità, l’immagine, non la scala.
No! E’ sbagliatissimo il mio ragionamento, anche se dato da un impulso di giustizia è sbagliato. Non sono come loro.
"Non vi uccido. No."
"Vi disarmo! Vi mando via! Vi trasformo in benevoli, tolleranti, caritatevoli esseri umani! Qualsiasi altro modo!"
Detto questo mi sento risollevato, ma è una sensazione che dura solo un breve istante. Il ritrovarmi con una foto in mano e dentro il fermo immagine della scena del locale mi mette ansia, un’ansia che rischia di trasformarsi in esasperazione se non trovo rapidamente delle risposte. Capto il silenzio guardando Zoomster al centro fotogramma, Liliflag seminascosto nel buio a sinistra e gli uomini in nero che scendono dalla scala in alto a destra. Due sono rimasti per la metà alta fuori dall’immagine, ovvero senza testa.
Bene, così ho bloccato tutto… Ma sono… solo.
Solo, e con la precedente consapevolezza che mi manca qualcosa. Una memoria, e una consapevolezza crescente di essere qualcuno. Non so chi ma ho un sospetto e per paura opto, tento, di non pensarci.
Saluto mentalmente i miei colleghi e amici, vividi abbagli con il cuore ‘rockettaro’. Appoggio la foto sul divano di velluto rosso davanti a me.
Indietreggio di un paio di passi, mettendo a fuoco che l’ambiente in cui mi trovo non è altro che una miserrima soffitta. So che se cominciassi a guardarmi intorno rinverrei tutta roba e robaccia vecchia e superata tipica da soffitta, un deposito di ricordi.
Ricordi… non sono cosa mia.
Altri due passi indietro e mi sento domandare: chi sono io?
Esatto. La questione, il nocciolo della questione è risaltato fuori. Chi sono io?
Le ultime cose che ho fatto, il locale, gli amici, i Man in Black, la foto, il divano, la soffitta, sono anche le prime che ho in mente. Le uniche.
Già non sapevo chi ero, ora non so chi sono. Stavo/sto inconsciamente sperando di scoprirlo. E il pensiero ricacciato indietro per paura adesso è impetuosamente qui, sotto forma, guarda caso, di domanda: può Dio perdere la memoria?
E agire di conseguenza, mi viene da aggiungere.
Sento un sorriso formarmisi addosso, ma non è di felicità. E’ un modo conscio e triste di accettare la cosa, le mezze notizie che diventano certezze, e un quadro che si sta delineando di tratteggi confusi e tinte di ipocrisia.
Chi sono io?
Un Dio senza memoria? O una memoria senza Dio?
Quante domande per uno che non ha mai saputo chi è, o ha bellamente rinunciato a saperlo.
CHI SONO IO ?
Marco Milani