L’unica cosa che comprendeva era che quella che stava vivendo era una serata solita alle altre. Il tutto poteva essere arricchito dai propri pensieri, peccato fossero sempre le stesse para ogni sera. Sapeva che Boss aveva dietro tre sassi, uno e mezzo a testa. Sapeva che doveva ascoltare Boss con le proprie dispersioni cerebrali e non il contrario. Era tutto gratis e la legge dei drogati non ammette la possibilità di tirarsi indietro di fronte alle offerte. Semmai autorizza a quando se ne possiede per sé gestirla come si vuole. Ma quella sera di fine agosto, con il cielo sereno, il vento da meridione, i grilli canterini e i casolari all’orizzonte, Cesare non aveva voce in capitolo. Era ospite e si adattò.
“Senti che fuoco fanno questi” interruppe il silenzio Boss tirando su con il naso.
Cesare con aria falsamente interessata si grattò la nuca e spostò lo sguardo dai suoi desideri alla JVC illuminata del suo amico. Compariva la traccia numero 8. Non riconobbe di chi fosse quel prodotto nu-metal.
“Chi sono?” domandò.
Boss si era tirato fuori una centos e prima di accendersela rispose con il filtro stretto tra le due labbra.
“System Of A Down”. Poi fece girare la rotellina metallica facendo uscire la fiamma gialla avvicinandola all’estremità.
Cesare lo guardò paralizzato nei suoi sognanti pensieri. Poi come un fulmine, gli passò per la testa un ragionamento che egli stesso considerava, inconsapevolmente, ambiguo. Giusto o ingiusto che fosse doveva seppellire il passato e accendere dentro di sé la fiamma della razionalità. Dimenticare, dimenticare, dimenticare e…
“Dove l’hai comprato? Al Music Market di Ethanè?”
“No” rispose a bassa voce Boss prendendo la centos con la mano sinistra “Me lo ha dato Beppe”.
Si avvicinava una curva pericolosa a sinistra. La Corvette blu metalizzata dai 45000 kilometri sul motore viaggiava ai 110. Cesare non si preoccupò.
Boss la compì scalando di colpo in quarta e tenendo il volante con la sola mano destra e di colpo tutto il peso della Corvette si addensò sul lato destro della vettura facendo schiacciare il volto di Cesare sul finestrino. Come al solito tutto era filato liscio. Psycho, groupie, cocaine, crazy cantava Serj Tankan con la caratteristica voce che lo rendeva inconfondibile nel mondo del rock. Una intonazione personale e alternativa molto concentrata sugli alti.
Boss accennò una risata, come una scheggia. Effetto incontrollato.
Cesare accennò un sorriso e poi si riaccomodò nella meccanizzazione dei suoi pensieri. Luci artificiali si infiltravano all’interno della Corvette come i lampi che si immettevano sovrani tra le nuvole ammassate come gregge di pecore a sud-ovest. Cesare constatò che sarebbe arrivato di lì a poco un grosso temporale estivo, avrebbe procurato danni e il giorno dopo l’aria sarebbe stata fresca e umida almeno fino a mezzogiorno. Ma valutava anche che potessero essere lampi di calore che molto spesso si intravedevano nelle serene notti estive come quella. Era molto categorico ultimamente. Le situazioni vissute, il cattivo umore, le tristezze che imprigionavano la sua vera gioia lo avevano condotto ad assumere un comportamento di valutazione a volte estremo. Teneva conto di tutto e considerava che ogni piccola cosa, naturale o astratta che fosse, potesse avere un suo ruolo all’interno di una faccenda o situazione. Era forse stratega? Chi lo sa, comunque sia tutto ciò non lo preoccupava per niente. Era sereno, come il cielo addobbato di stelle.
Boss aprì il finestrino e gettò la cicca creando quell’effetto di scintilla tipico delle macchine da Formula Uno. Rallentò e svoltò per una stretta strada sterrata di campagna, completamente deserta, distinta da buche e rari ciuffi d’erba; da entrambi i lati, i muri di mais creavano un effetto tunnel del tutto caratteristico di strade di campagna. Si stavano infiltrando, nascondendo, infigando, come la volete chiamare voi. In poche parole non sarebbero tornati da quella strada fino all’una di notte.
Boss si fermò in un piazzola che dava sull’entrata a un campo, tirò giù i finestrini e spense la macchina. Sospirò e Cesare sempre tenendo la mano dietro la testa capì che ora il suo amico si stava apprestando a formulare le proprie teorie, a rendere il suo personaggio un essere tra i tanti della categoria “distrutti”. Gli dava fastidio questo suo atteggiamento, era proprio perso, irrimediabilmente irrecuperabile.
“Sono proprio stanco. Ieri sera sono andato a casa alle cinque e questa mattina alle otto ero già al lavoro a portare in giro quei fottuti cavi elettrici. Ho fatto tappa al Rouge per prendere brioches e cappuccino. Lo avessi mai fatto: non sono riuscito a digerirlo e mi è rimasto nello stomaco per tutto il tragitto fino a Cayal Town. Faccio proprio schifo.” Poi aprì il vano del cruscotto e tirò fuori un sacchetto di nylon trasparente contenente tre grossi pezzi di polvere bianca.
“Sono gli ultimi. Domani devo assolutamente trovarmi con Mohamed per fare spese” e guardando Cesare negli occhi ebbe un altro effetto incontrollato. Non un sorriso ma un rapido scatto della sopracciglia sinistra.
Cesare formulò l’ipotesi che quella sera Boss era di buon umore. Forse un po’ stanco ma sicuramente molto sveglio nei riflessi. Controllava tutto alla perfezione, Boss, era un vero pusher, di quelli che tengono contatti e si fidano poco di tutti. Lui e Cesare erano ottimi amici da tempo, tante cazzate fatte insieme, ciucche prese insieme, impastigliati all’Aida, distrutti a bocca aperta dopo quattro canne. Sempre insieme. Il loro non era comunque un rapporto di amicizia basato sulla droga. Si conoscevano entrambi nel profondo della loro anima laddove anche le più sensate valutazioni di sé stessi vengono disperse dall’inconsapevole oceano dell’inconscio. Il posto inarrivabile dalla lucidità. Decise in quell’istante di aprirsi al caro amico. Farlo partecipe delle proprie tragedie personali, sbattendosene di rispettare i vincoli dell’ospitalità nel covo della Bianca Visione.
“Ho bisogno di sfogarmi, Boss” avanzò Cesare. Sentiva dentro di sé crescere un certo benessere, conseguenza della consapevolezza del fatto che ora non era più solo dentro sé stesso. Sarà stata la voce di Serj Tankan, la posatezza dell’amico, il canto dei fottuti grilli, sarà stato l’inconscio che a volte ti prende la volontà di gestire le parole che vuoi far uscire… ora era entrato nella tana del lupo e doveva cedere, doveva abbandonare il groppo intestinale. Doveva e basta.
Boss, noncurante delle parole, prese una scheda Omnitel da 10 euro e cominciò a tracciare alcune righe sul cd di Ozzy Osbourne.
Cesare lo guardò assumendo quell’espressione tipica dei bambini che vedono qualcosa di nuovo.
In realtà ammirava la maestria di Boss nello spezzare, dividere, riaggiustare le righe fino a renderle uguali nella lunghezza e nel contenuto. Un mago. Poi prese dalla tasca dei Levi’s il portafoglio in pelle nera, lo aprì e cominciò a passare le banconote a una a una. Pezzi da venti, cinquanta, cento euro. Poi si fermò su un Caravaggio.
“Eccola qui, la mia preferita”. Boss la prese tenendola con entrambe le mani esponendola alla luce dell’interno macchina. Sembrava volesse valutare se fosse originale.
“Che fai? Guarda che la lira non vale più un cazzo” intervenne Cesare con un sorriso.
Boss la ritirò.
“Ah già” e cominciò a rotolarla su sé stessa.
“Sei proprio sotto” aggiunse Cesare. Già, tutti nella sua compagnia avevano ereditato gli effetti pericolosi dell’abuso di droghe, l’evanescenza dei riflessi mnemonici. Colpa delle sostanze, colpa della personalità debole e di altre mille stronzate, ma a nessuno era riuscito scappare dalla morsa del rincoglionimento. Nemmeno Seven, l’amico che portava su erba e hashish e che affermava di essere normale, che il THC ti infiamma i neuroni e non li brucia. Anche lui era sotto. Tutti lo erano e “tanti avrebbero avuto a che fare con grossi problemi fisici già a trent’anni” rifletté Cesare.
Compì un viaggio nei suoi ricordi più intimi, nelle occasioni storiche della sua vita, raccolte nell’album della memoria. Ricordava la sua prima cicca a 12 anni, a casa da solo, con già pronta una lattina di insetticida da spruzzare appena finito di fumare. La prima canna, proprio con Boss, su per i colli, a 15 anni. Ricordava come gli sembrasse tutto più sereno, colorato, come le orecchie avessero cominciato a chiudersi… e non era colpa dell’altitudine. Ricordò poi lei. Come un fulmine al ciel sereno. Ricordò lei e la dimenticò. Ripensò poi al primo tiro di coca. Sempre con Boss, della sua naturalmente, lui non poteva permettersela. Ricordava tutto.
“Tieni”. Boss gli stava offrendo un tiro di bamba. Una bella striscia bianca, con tanto di cristalli che brillavano al pari delle stelle del firmamento. Boss se ne era già fatte tre e ora si premeva la narice destra per defluire la sostanza fino al cervello.
Cesare prese il millino con i polpastrelli freddi per la tensione, lo appoggiò al naso e tirò con forza. Mille pensieri gli balenarono nella mente tutto d’un fiato. Sembrava che il diavolo e Dio stessero dando una festa tra le sue meningi. Chiuse gli occhi volteggiando (“Cazzo, quanto è forte” pensò) mentre Boss lo guardava divertito e rideva.
“Buona, vero?” gli chiese.
“Cazzo se è buona” rispose Cesare. Poi rise. Effetto incontrollato.
Il rito aveva avuto inizio.
“Sai, stamattina quando sono rientrato mia mamma era sveglia. Era appena uscita dal bagno e i nostri sguardi si sono incrociati. Non me l’aspettavo proprio. Batticuore a palla, lei che mi fissa con quegli occhi infossati dal sonno, lei che fissa il mio sguardo affossato. E mi domanda dove sono stato. Io mormoro qualcosa gettando gli occhi verso il basso, sul parquet, ma tanto mi ha sgammato, penso. Mi domanda se non mi vergogno.” Boss alza la testa e comincia a ridere. Un sorriso sincero ma gli occhi lo tradiscono, parlano la sua infelicità. Poi si rasserena e massaggiandosi il ginocchio continua “Sai cosa ho fatto, Cesare?”
Cesare lo sta ascoltando aggiustandosi la narice destra.
“Le ho detto di andare a letto, di non pensare a me… ti rendi conto? Sono stanco di questa città, sono stanco dei miei. Voglio andarmene da Hottel City, dove tutti sanno tutto di tutti.” Poi si massaggia la mascella e distende il sedile. Gira le chiavi abbassando il proprio finestrino. Il canto dei grilli entra nella Chervolette sovrapponendosi alle note di Prison Song.
Nessuno dei due parlò per un bel po’. Boss e Cesare, con la propria dose nel naso viaggiavano in pensieri paralleli dissonanti. Il padrone di casa era stato rapito nella grotta dell’angoscia personale che aveva sempre sofferto e lo sguardo era diretto all’erba del campo, che però non guadagnava spazio nel suo cervello, troppo preso dalla neve e dalle preoccupazioni.
Cesare dal canto suo guardava il temporale proveniente da sud-ovest ricorrendo talvolta a lei, a volte rituffandosi nelle parole di Boss, storie di vita vissuta. Non sapeva dove sbattere la testa. Lo scopo di quella sera era come al solito fottersi della vita e della legge. A mandare a fanculo il mondo, come sempre, con i suoi pro e i suoi contro. Era sempre la solita solfa, la solita minestra che veniva mescolata ogni santa sera. Piazza, giro in macchina, tirare, ridere, tirare, sbadigliare, cazzeggiare, pensare, rendere conto a nessuno, ripigliarsi e tornare alla tana, con meno cervello e un sorriso ebete sulle labbra. Tutto ok. “No, non a ventidue anni, cazzo. Questo non può andare avanti, questa non è vita, e che merda, dovrei essere a letto a scoparmi la prima che capita.”
Tra tutti i tipi della Beluga, Cesare era sicuramente il più distaccato, quello che compariva da dietro le quinte e ci restava, assorbendo gli ordini della company, con un proprio rispetto, con un proprio karma, quello personale che tutti possedevano e che li rendevano diversi gli uni con gli altri. Cesare era il muto, colui il quale c’è ma non lo cerchi, un soldato semplice in una partita a scacchi. Né desiderato, né indispensabile, né sfasciacazzi, né paranoico. Neutro. E a lui andava bene, perché no, che cazzo c’entrava avere un ruolo in una banda di drogati con l’unico motivo di stare insieme se non quello di incularsi soldi a vicenda, fumare il fumo dell’altro a scrocca e qualche volta tirare. Poi tutti parlavano alle spalle di tutti, riproducendo la formula del suo amico “Tutti sanno tutto di tutti”. Lui, Cesare, la figa ce l’aveva e anche bona, tipa tutta peperina con le proprie moine, con i propri tiri, con la testa a posto, qualche canna con gli amici, un bel sorriso, tutto qui ma a Cesare ragazzo semplice bastava questo. Bastava essere capito, essere partecipe all’interno di un’altra vita. Troppo tempo e troppe para piantate ed ecco che l’inevitabile ti capita proprio in un giorno di pioggia, proprio quando sai che girano voci che si veda con un altro e il suo sorriso non è poi così bianco. E pensi che, fanculo, andrà meglio un’altra volta e intanto ti riempi il naso di quella polvere bianca che ti rende inerme perfino di fronte alla realizzazione dei tuoi ideali. Cesare, ragazzo sano e benestante, famiglia diligente e lavorativa, conosceva la via del ritorno dall’inferno. Comprendeva che quella era solo una sbirciatina, sapeva più di tutti e forse più di tutti poteva vantarsi di possedere nel proprio carisma il biglietto di ritorno. Sapeva ma non voleva aprire il proprio cuore a sé stesso. Sapeva ma si tradiva con le sue stesse mani. E un’altra notte bianca sarebbe passata, il groppo allo stomaco sarebbe rimasto come il desiderio di rivedere i vecchi amici, di infigarsi da qualche parte godere dei piaceri della natura, ma sì chi se ne frega, finchè va avanti così, no problem.
“Tieni”. Boss avvicinò Ozzy Osbourne a Cesare con le mani tremolanti e il fiato affannato. Cesare tese le mani rimanendo con la mente alla fermata dei ricordi. Non capiva niente di ciò che succedeva, qualcosa lo aveva rapito, il desiderio di vendetta forse, chi lo sa…
Il temporale si avvicinava e i fili d’erba si muovevano cullati dal vento di sud-ovest.
“Devo disfarmene per sempre” disse Cesare. Poi rapido piombò sul cd. Una. Due. Tre. Un aspirapolvere. Gridi, effetti incontrollati, Boss che rideva e cambiava cd nella JVC. Urli di euforia.
Cazzo, che buona!!!
Inaspettatamente (ma non molto) la serata aveva preso una piega diversa. Un dio malefico era intervenuto con la sua mano soprannaturale a spazzare via tutto ciò che rimaneva di pacifico e razionale dai cervelli di quei poveri ragazzi, giostrando come un venditore di palloncini ambulante, cospargendo sorrisi edificati senza remora all’interno della Corvette.
E un’altra serata bianca se ne stava andando. Altre non vite che continuavano nel loro cammino costruito su selciati caleidoscopici e terra sabbiosa, senza parole vere, senza quel senso di realizzazione che ti rende REALMENTE felice quando sei a letto e stai prendendo sonno.
E nemmeno a Cesare questo interessava.
“Come come come? Devo disfarmene per sempre?” rise Boss guardando lo sguardo perso di Cesare. “Ah, ah, ah, buona questa. Sono io che devo disfarmene. La roba è mia” e continuò a ridere.
Per Cesare diventò tutto chiaro in un colpo, come i fulmini che si avvicinavano in direzione della Corvette.
Si girò di colpo verso l’amico, lo sguardo assatanato, le labbra tremolanti alla ricerca di saliva, le mani tremolanti. Aprì la bocca facendo uscire una voce impastata e roca.
“No, Boss, sono io che devo disfarmene” e fissò il ragazzo come avrebbe fatto un pazzo in crisi epilettica con il televisore.
Boss rimase impietrito. Smise di muovere il ginocchio e il cuore cominciò a pompare sangue più veloce di prima. Sempre di più, sempre di più, sempre di più…
“Ehi, ma che cazzo dici!” balenò Boss. Era egli stesso infuriato. Al momento quella situazione venutasi a creare non gli piaceva. Non gli piaceva quello sguardo di Cesare, non gli piaceva come il tempo si fosse fermato di colpo quando il corpo chiedeva di muoversi, chiedeva aria libera…
“Io scendo” disse Boss, e aprì la porta della macchina.
Cesare lo segui calpestando la terra secca della strada e qualche foglia staccata del vento e irrimediabilmente finita a terra. L’aria profumava di campagna, comprensibile e le foglie di mais seguivano la direzione designata dall’intensa e fresca brezza temporalesca. Non mancava molto all’esplosione di fulmini, acqua e tuoni. A quasi cinque chilometri di distanza si sentiva la pioggia battere fissa i tetti di Hottel City.
Cesare guardò il cielo per metà limpido e metà coperto da ammassi di nuvole nere. Realtà e fantasia a confronto. Una linea sottile, impercettibile le divideva. Come in un tavolo da ping-pong. Le nuvole a ogni secondo si guadagnavano sempre più spazio, sempre più realtà. La fantasia stava prendendo il sopravvento.
Cesare in quell’istante capì.
Capì tutto.
“Mi prende male, andiamo” disse Boss infilandosi velocemente in macchina, in preda ai propri schizzi onomatopeici. Accese la JVC, Napalm Death. Cesare, incauto delle parole lo guardava con sguardo perso al di fuori con una Marlboro tra le dita. Lo sguardo ancora assatanato, la ferma concretezza di sapere che ora lui era solo e tra le mani aveva il suo destino. Il compito di cambiare radicalmente la propria vita lo eccitava allo spasimo, l’essere consapevole che dal giorno dopo ci sarebbe stato un altro Cesare aumentava in sé la piena fiducia di poter essere di nuovo una persona come tutte le altre, ma rigenerato dall’interno. Era bastato poco: la sera, la macchina, la coca e la meccanizzazione accesa dei pensieri accomunata con la lievitazione dei ricordi. Un mix di realtà e sogni dove la prima aveva inesorabilmente perso, abbattuta da geni contendi il mantello squarciato dalla droga. Certezza e ancora certezza. (Sogni solo sogni).
La Corvette scivolava ai novanta km sulla strada di ritorno, condensata dal rumore dei rullanti dei Napalm e intrisa di Arbre Magique Pino classico. Le menti dei presenti disciolte in un oceano da una parte irrealizzabile e dall’altro introspettivo. Due cuori, due amici, due scopi diversi, due realtà. Anzi una. Il resto solo sogno.
Serata di fine agosto
La pianura si distendeva fino ai colli leggermente accarezzata dal soffice sussurro di un vento temporalesco proveniente da sud-ovest. I grilli celebravano con il loro canto lo spettacolo del firmamento pianamente sereno, in quella serata di fine agosto. Qualche casolare disperso spuntava all’orizzonte, case vecchie utilizzate per il ricovero attrezzi, quei tipi di costruzioni che avevano passato entrambe le guerre mondiali e “vederli in piena notte fanno sicuramente venire i brividi” rifletté Cesare a bordo della macchina di Boss. Avrebbe voluto scendere per un solo secondo, per confondersi velocemente con il miscuglio naturale del paradiso terrestre, per disperdersi nel vortice del vento, addormentarsi con le ninne nanne dei grilli e sognare di digerire finalmente il groppo allo stomaco che lo attanagliava da quindici giorni, ormai. Troppo tempo. Era insopportabile e Cesare sapeva che con il suo carattere non sarebbe riuscito a riprendersi immediatamente, a rendersi conto che la sua vita aveva subito una svolta decisiva, un cambiamento ormai, per suo errore, irrequivocabile. Pensava a tutte queste cose che in quel mentre non potevano essere esaudite. A bordo con lui c’era Boss e non il genio della lampada, lo stesso raffigurato nei fumetti di Topolino che sole poche ore prima Cesare aveva divorato regalandogli qualche viaggio mentale infantile. Sognava come un bambino di potersi trovare a faccia a faccia con un genio con il turbante, la pelle scura, pizzetto accennato, rivestito da capo a piedi da sete dorate. Con voce profonda e piena, le braccia conserte, lo sguardo fiero, il tutto addobbato da una cortesia acquisita col tempo, l’infinita vita che solo un genio arabo può permettersi. “Tutto quello che vuoi padrone”. Cesare sorrise nella macchina; cosa avrebbe potuto chiedere? Soldi, successo, fighe a manetta, droga? No, non erano poi così importanti, almeno in quel momento. Desiderava semplicemente tornare indietro col tempo, ma purtroppo era conscio egli stesso che quello era stato il desiderio di molti uomini nati prima di lui, che ora smaltivano le pene dei propri errori. E quel desiderio era irrealizzabile, perché non era il tempo il desiderio suo ma bensì sé stesso. Ma di questo Cesare non ne era conscio.
Meraviglia Murata