KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Terra rossa (9-10)

13 min read

Terra rossa

9. Tefa da Filine
.

La taverna era deserta, caldo metallico locale disorientato dalla temperatura, eccezionale per quella stagione: un calore sufficiente a far sudare senza nemmeno bisogno di compiere un movimento. Quella era la Meralba bollente di un autunno che stentava a decollare, che stentava a portare le sue fredde arie e i suoi tranquilli commerci. Quella era la città operosa dove poco spazio c’era per la fantasia, e dove le stagioni non influivano più di tanto: città di grandi lavoratori. Una squallida città, che non aveva cuore sotto le avveniristiche costruzioni che la grande tradizione architettonica aveva portato in regalo agli abitanti della città.
Meralba era una città di forni bollenti e grandi cantieri; era una città spaziosa dove le strade erano larghe e piastrellate con grandi pietre lisce, affinchè la polvere della terra battuta non sporcasse le grandi costruzioni in pietre colorate. Il cuore della città era la grande piazza della fontana, dove una splendida costruzione in marmo lavorato, rappresentante una spada piantata in una roccia, ricordava a tutti il grande antico commercio che aveva reso ricca e famosa Meralba, la città delle spade. Non erano che pochi decenni, in fondo, che le prime armi a polvere da sparo avevano fatto la loro comparsa, nonostante ormai si fossero diffuse a macchia d’olio e avessero quasi soppiantato l’antico grande commercio.
La piazza era di forma circolare, ed era su diversi livelli: dei gradini scendevano gradualmente verso la fontana, situata al centro del cerchio. Là, su quei gradini lisci, sedevano i giovani e i meno giovani nelle sere a discutere, a parlare d’amore, a fare progetti per il futuro. Là nelle feste si radunava la popolazione e venivano letti proclami ed annunci dei governatori della città. Là si davano appuntamento i ragazzi ai primi appuntamenti, accompagnati dalle famiglie. Là veniva allestito il patibolo che uccideva i crimini più gravi, in una città dove venivano eseguite più di tre esecuzioni pubbliche all’anno.
"Disgustoso", pensò Filine sbirciando con gli occhi socchiusi la grande piazza di Meralba. Trovava squallida quella città. Era ben contenta di essere nata altrove, seppure in un piccolo paese direttamente governato dalla stessa città. Là poteva uscire ed era in mezzo ai boschi, non in questi freddi e geometrici vicoli. Là poteva cavalcare nei campi e sentirsi libera da ogni impegno, da ogni colpa. Ne era ben contenta perchè ogni tanto poteva fuggire dalla città e tornare dalla sua famiglia per una boccata di ossigeno.
Ripensandoci, non era proprio così che si era immaginata il suo futuro a Meralba. Non era tagliata per fare la moglie di un contadino, e al suo paese non avrebbe potuto imparare nient’altro; ecco perchè era venuta a Meralba. E, in effetti, aveva imparato a cavarsela con la gente. Aveva conosciuto strane storie di viaggiatori, di mercanti e di guerrieri. Aveva imparato a contrattare. Aveva maneggiato alcune armi, e ora non girava mai senza un pugnaletto nascosto negli stivaletti. Ma doveva mantenersi in qualche modo, intanto che imparava tutte quelle cose. E per una bella ragazza come lei, che non si facesse troppi problemi, c’era un modo piuttosto rapido per fare soldi. Era stato proprio in quella taverna, pensò, che…

… l’uomo le si era avvicinato. Un uomo bellino, solo un po’ su di età. Le aveva offerto da bere, e lei aveva accettato con totale assenza di malizia. Gli sembrava una cortesia. Poi quell’uomo si era avvicinato in modo da non farsi sentire, le aveva infilato nella mano un biglietto da un centinaio di scudi, e le aveva detto: "Mi faresti compagnia per questa notte?"
Qualche dubbio c’era stato. Rapido. Ma quei soldi erano nella sua mano, e quell’uomo voleva solo un po’ di compagnia. Cosa c’era di così male?
Aveva detto sì. L’aveva accompagnato alla sua camera e aveva fatto l’amore con lui. Quel tenero solitario mercante si agitava tutto e ansimava, neanche fosse un toro. Niente, al confronto del suo Tefa, che la prendeva facendole venire brividi di paura – di piacere. Questo era una carezza, al confronto: le sembrava di essere la spettatrice delle sue masturbazioni, per quello che sentiva. Ma per i soldi che le aveva dato, non era un gran sacrificio. E Tefa era lontano, chissà dove, per quello che lei ne sapeva nel letto di qualche prostituta di Riot. Così…

Le volte successive aveva imparato ad ansimare e a lamentarsi, come se fosse davvero eccitata. Scopriva che quelli finivano prima, così. E non aveva problemi, per il lavoro: in quella taverna passavano tutti gli uomini soli della città. E anche quelli che non erano soli erano venuti a cercarla dopo qualche tempo. Con un pugnale nascosto nello stivaletto, il pensiero al suo Tefa e dopo aver verificato che la potessero pagare, recitava la sua parte per regalare un po’ di piacere a qualcuno.
In poco tempo Filine era diventata la puttana più famosa di Meralba.
– Ciao, Fil.
Un uomo aveva gettato la sua ombra entrando nella taverna, scostando bruscamente i fili di perline che pendevano sulla porta. Filine si voltò e sorrise sorpresa.
– Tefa, piccolo mio – disse la ragazza saltandogli al collo. – Finalmente sei tornato a trovarmi.
Si baciarono, mentre l’oste si chiedeva divertito come la ragazza potesse chiamare "piccolo mio" quell’armadio di uomo, con un fisico da guerriero.
– Lasciati guardare. Sei sempre in forma. Ma mi sembri un po’ depresso.
Tefa guardò la ragazza, i suoi occhi cristallini che non brillavano nella penombra della taverna. Lasciò scivolare lo sguardo lungo le splendide forme della sua ragazza, di quella che gli sembrava la ragazza più bella del continente; lungo le braccia lasciate nude dal vestito, la sua pelle scura liscia morbida dolce da accarezzare e da baciare. E pensò con una fitta di gelosia a tutti gli uomini che baciavano quella pelle. Ma non poteva obiettare: Filine era una donna capace di fare la sua vita, e questo era già stato dimostrato da tempo. In ogni caso, se qualcuno avesse dovuto insegnarle qualcosa… non era certo lui, questo qualcuno: un assassino vagabondo che non riusciva a trovarsi un modo decente ed onesto di guadagnarsi da vivere.
Ma una punta di amarezza, comunque…
– Allora? – insistette lei. – C’è qualcosa che non va?
– Oh, no – rispose Tefa. – Cioè, sì, ma non per me. Diciamo che ho un lavoro da fare.
Filine sapeva che quando Tefa diceva di avere un lavoro da fare, si riferiva a uccidere. La cosa gli sembrava cruda e insopportabile, se ci pensava razionalmente: ma sapeva bene che lo stesso poteva valere per lei e il suo lavoro… e dunque aveva la stessa tollerante amara comprensione.
– Devi andare lontano? – chiese nascondendo la delusione e la preoccupazione.
– Abbastanza. Mi dai una birra? – aggiunse poi rivolto all’oste.
– Tefa.
Si voltò verso la ragazza.
– Sei appena arrivato… – mormorò lei, e lo baciò leggermente accarezzandogli una guancia.
– Già.
Si sedettero al tavolo.
– Come ti passa? – domandò Tefa.
– Alle solite – rispose lei. – Dall’ultima volta che ci siamo visti ho imparato a usare il pugnale, e poi ho fatto le solite cose.
– Te ne sei sbattuti tanti?
Filine non fece una piega. Accennò un sorriso quasi impercettibile e rispose: – Sicuramente più di quante te ne sei sbattute tu.
"E come si fa a non amare una così?". Filine aveva su di lui lo stesso fascino dei cavalli selvaggi che corrono coraggiosi, inarrestabili, quasi incoscienti, quasi pazzi. Era orgoglioso di aver domato quella splendida bestia.
– Senti, che ne dici di prenderci un paio di cavalli e lanciarci verso casa tua? Magari possiamo passare un bel pomeriggio al fiume.
– Dico che è una splendida idea, piccolo.

Fu una delle cavalcate più calde della sua vita, sotto il sole cocente sudava tanto da ridursi fradicio. Appena arrivato al fiume saltò giù dall’animale e si buttò nell’acqua, lasciando Filine a occuparsi dei due cavalli.
– Oh, è bestiale! – gridò Tefa con entusiasmo – Oh, Dio, si sta troppo bene!
La ragazza aveva stampato sul volto quel sorriso inattaccabile di quando sta andando tutto per il meglio. Guardò ancora una volta quel ragazzone che improvvisamente si era messo a giocare come un bambino. Non era poi così sbagliato chiamarlo "Piccolo": si trattava solo di vederlo in momenti come questo.
Si tolse gli stivaletti, poi si gettò nell’acqua con il resto dei vestiti ancora addosso. Faceva tanto caldo che si sarebbero asciugati subito. Abbracciò Tefa e cominciò a schizzarlo d’acqua.
– Che puttana che sei! – gridò lui, ironicamente, e lei gli saltò al collo cercando di strangolarlo. Ironicamente. Lui la lasciò fare per alcuni secondi, dopo di chè la scaraventò nell’acqua. Lei si raddrizzò scuotendo la testa e passandosi le mani sul viso per liberare gli occhi dall’acqua. Fece lo sguardò più inferocito che le riuscisse, e Tefa si mise a ridere, ma nel frattempo si allontanò da lei a grandi balzi, cercando di rimanere in equilibrio nell’acqua corrente. Filine, più agile, lo raggiunse, e cominciarono a lottare.
Il rumore delle loro esternazioni era l’unico dei dintorni. In quell’estate fuori tempo, tutto era tranquillo: non c’era un filo di vento che agitasse le foglie dei grandi alberi su entrambe le rive del fiume. Il fiume scivolava via rapido e incosciente verso la sua lontana morte, nel grande oceano che lo attendeva famelico a centinaia di chilometri. Portava con sè il profumo fresco delle rocce montuose su cui correva appena nato, sottile, fragile eppure inarrestabile; si mischiava poi all’aroma dei boschi che ne sorvegliavano il corso, regalandogli rametti e foglie; e ora veniva avvolto dal caldo odore dell’erba nella lunga pianura, ora che il sole batteva sull’acqua senza nessuna protezione. Era la natura, eterna ed eternamente in movimento.
Filine e Tefa smisero di ridere e di picchiarsi, e per fare pace si diedero un lungo e appassionato bacio, così, nell’acqua fino alla cintura. Poi Tefa prese in braccio la ragazza e la portò verso la spiaggia, ridendo del proprio romanticismo. Anche gli assassini e le puttane hanno un cuore.
– Ora ti faccio male – le sussurrò quando l’ebbe posata sull’erba della riva.
– Non vedo l’ora – rispose secca lei.
Si tolserò i vestiti malamente, in fretta, tra un bacio e una carezza e una leccata e un pizzicotto e una risata e poi improvvisamente lui la penetrò e come al solito per lei fu come saltare nel cielo e rimanere là sospesa, e rispose contorcendosi e stringendolo con le braccia e per lui fu come scivolare in un caldo abbraccio di miele, come rannicchiarsi nel posto più caldo e comodo e confortevole di tutto il mondo, e allora spinse, e spinse, e spinse, e quando venne il fiume impallidì al confronto.
Ansimavano.
ADESSO, semmai, c’era il tempo per essere un po’ più teneri, e magari stare anche solo lì sdraiati a godersi la compagnia fisica.

Erano a casa di Filine, quella dove era nata e cresciuta e dove ora sua madre l’accoglieva sempre con grandi feste e grandi abbracci, senza chiederle nè cosa avesse fatto nè dove fosse stata. Suo padre era morto due anni prima. Avevano cenato e parlato e poi erano stati in silenzio sotto il cielo stellato. Più tardi erano andati in camera e avevano fatto l’amore ancora. E ora Filine era ancora sveglia, felice, troppo felice per dormire.
Lo guardò mentre dormiva. Lo guardò mentre uno spicchio di luce lunare filtrata dalle tende si spegneva su una delle sue forti braccia. Guardò quell’uomo forte, indomabile, quell’uomo che odiava il mondo eppure lo dominava, a modo suo; quell’uomo che viveva la sua vita, seguendo solo le proprie voglie e i propri istinti, fottendosene di ogni potente e di ogni legge e di ogni tradizione; eppure abbastanza sveglio da rimanere sano e libero. Quell’uomo non era un ribelle: era un anarchico. Era uno che se ne infischiava di tutto e di tutti… tranne, forse, di lei. Almeno un poco. Oh, al diavolo, un bel po’. Era l’unica persona che avesse qualche significato per lui, e questo non era da sottovalutare.
Lo amava. Come si poteva non amare un uomo così? Era un uomo il cui solo sguardo diceva che non c’era niente che poteva fermarlo, che poteva preoccuparlo. Era il cuore più duro e forte che avesse mai conosciuto. E aveva scelto lei.
Guardò ancora i suoi muscoli, e la sua pelle indurita. Lo accarezzo leggermente con le labbra sul collo, piano piano, per non svegliarlo.
Non lo avrebbe lasciato andare, non stavolta. Quell’uomo era avventura, era libertà, era vita. Era la sua vita.

10. Qualcosa da qualche altra parte – III

E’ notte – calma notte primaverile senza vento ai piedi del monte Arwok – e tutto è silenzio. L’uomo ha sceso le scale e si trova nei corridoi del castello. Non dev’essere difficile raggiungere le stanze del pazzo, e poi tranquillamente farlo fuori. Poi non sa se riuscirà a scappare, ma non è così importante. Quando Cimaron sarà morto, la più grande minaccia che Biggard abbia ricevuto svanirà nel nulla. E non è detto che nella confusione lui riesca pure a scappare, e una volta fuori dal castello chi può rintracciarlo? Saranno troppo occupati a piangere il loro capo.
Il cuore batte forte per l’emozione quando si è vicini alla vittoria, non ha altro da fare che avvicinarsi in silenzio, è tardi e Cimaron se ne sta sicuramente andando a dormire. Gira un angolo e poi torna frettolosamente sui suoi passi. C’è un uomo che si avvicina cantando. Fatica a camminare dritto. Dev’essere un po’ alticcio. E’ un tipo buffo, con una barba incolta, il viso stanco e gli occhi socchiusi. Al nostro uomo viene un’idea. Si sporge, sorride, e va incontro al tizio con l’aria più innocente che può. Lo saluta e quello risponde al saluto come fossero vecchi amici. L’uomo non vuole parlare troppo, capirebbero dal suo accento che viene da lontano, che è uno straniero, un agnello nella tana dei lupi. Si limita a domandare: "Dov’è Cimaron?" in dialetto di Norfolk, sperando di aver detto bene. Del resto, quel tipo è ubriaco… il tizio lo guarda per alcuni secondi in cerca di ispirazione. L’uomo, sempre a bassa voce, ripete la domanda. Quello lentamente si gira verso il fondo del corridoio dal quale è arrivato, e da cui si sentono arrivare voci. L’ubriaco si gira su se stesso e dice all’altro di seguirlo; e siccome fatica a reggersi in piedi, al nostro uomo tocca sostenerlo. Ma non gli dispiace: se è in corso una festa, sarà un ottimo alibi. Arrivano alla porta. C’è un salone dove la festa pare finita. Pochi conversano negli angoli, alcune coppie si baciano, diversi dormono o sonnecchiano sulle sedie o sui tavoli, molti si stanno vestendo e se ne stanno andando.
L’ubriaco indica un uomo seduto proprio al centro della grossa tavolata, dicendo che quello è Cimaron. Indossa un bel cappello rosso con piuma, calato sugli occhi. Si vede spuntare un pizzetto e un grosso orecchino appeso all’orecchio. Sembra addormentato, e tiene le braccia incrociate sulla pancia ben nutrita. Il nostro uomo esulta in cuor suo. E’ indifeso. Saluta l’ubriaco e gli fa un cenno di ringraziamento, poi lentamente si avvicina a Cimaron con il sorriso sulle labbra, come volesse fargli una sorpresa da vecchio amico. Be’, effettivamente sta per ricevere una grossa sorpresa, una sorpresa dolorosa in forma di un pugnale da 40 centimetri conficcato nel petto. Dunque quando è ormai al tavolo ci salta sopra, estrae il pugnale e lo pianta con tutta la forza nel petto della sua vittima addormentata.

Non c’è niente di più che un grido soffocato, niente altro che una morte silenziosa. Passano pochi infiniti attimi di silenzio e poi una signora lì vicino schiude gli occhi e vede un coltello insanguinato nelle mani di un uomo, e un altro uomo immobile con le mani sul petto. Vede un rivolo di sangue cadere dalla bocca dell’uomo. E’ lenta la sua mente, è lenta per nascita ed è rallentata dal vino che ha bevuto. Gli ci vogliono molti secondi per capire. Sussurra "Che succede?". Il nostro uomo si gira verso di lei, e le fa cenno di fare silenzio, sorridendo. Non c’è davvero problema. Non importa quel che gli succederà ora. Cimaron è morto.
Ma la signora chiede ancora che è successo, e stavolta a tono più alto. Ancora una volta, e sta quasi gridando piena di paura. Finchè la sua domanda diventa un verso sconnesso che richiama l’attenzione di tutti quanti.
Il nostro uomo si allontana, ma senza fretta. Alcuni uomini vedono il suo pugnale e gli gridano qualcosa, finchè uno di loro più intraprendente gli blocca le braccia, imitato da altri, e poco dopo è immobilizzato.
Lo tempestano di domande e di insulti mentre la donna piange sulla spalla del cadavere.
"Chi sei? Cosa ti ha fatto quest’uomo?"
"Quest’uomo era malvagio. Io sono venuto dal Sud per ucciderlo, e ora la mia missione è compiuta."
"Tu sarai giudicato e impiccato, uomo. Hai assassinato un nostro amico."
"Potete farmi quello che volete. Ho ucciso Cimaron. Questo è sufficiente."
Ci sono degli attimi di silenzio e dei mormorii che corrono per la sala.
Finchè uno degli uomini si volta verso un lato della sala e chiede: "Cimaron Di Leent, nostro Signore. Quest’uomo asserisce di averti assassinato. Che ne pensi?"
Qualcuno si avvicina. Il nostro uomo sente i suoi passi e guarda in quella direzione, riconoscendo l’ubriacone al quale ha chiesto informazioni poco prima.
"Non so, sinceramente non mi ero accorto di essere morto", dice.
Panico.
"Mettetelo in prigione. Dovrà rispondere dell’assassino del nostro amico Tobias Nerioh."
Ha sbagliato uomo.
"Agli ordini, Cimaron."
Il nostro uomo ha lo sguardo perso di un disperato che ha buttato all’aria una fortuna.
Cimaron ha il sorriso sollevato di chi ha utilizzato quella fortuna per sopravvivere alla morte.
"C’eri andato vicino, ragazzo. Non averne a male."
Ma il nostro uomo non ha più parole, non ha più speranza. Gli uomini di Cimaron lo trascinano nelle prigioni del castello.

Lo torturarono a lungo, dopo averlo mutilato delle dita, una ad una, e di un orecchio. Lo fecero soffrire finchè non si spense. Non era morto: ma non reagiva più nè al dolore nè alle parole. Si lasciò morire di fame e trascorse le ultime ore della sua vita passando da un sonno pieno di atroci incubi a una realtà piena di atroci incubi. E poi morì, e gli incubi finirono, forse.


Alessandro Zanardi (continua)

Altri articoli correlati

7 min read
6 min read
1 min read

Commenta