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Quanto manca a selinunte?

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Quanto manca a selinunte?

"Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo…" Apocalisse 3.16

Ero salito al capolinea con altri tre viaggiatori. Il più giovane era sempre in movimento frenetico. Scendeva a tutte le fermate e camminava su e giù per la banchina come una sentinella. Lo chiamavo l’Impaziente. Giustificavano questo nome i modi affrettati, la corporatura piccola e magra, il volto affilato e lo sguardo rapace, sempre in movimento circolare per assorbire ogni cosa intorno a sé con una voracità insaziabile.
La seconda era una cinquantenne. Povera, ma non intimorita, parlava con tutti; interamente assorbita dalle conversazioni, confidava cose sue, s’informava su ogni cosa. La Riccia, così la chiamavo, m’incuriosiva: una popolana insolita, capace di attirare su di sé l’attenzione.
Il terzo era un uomo d’affari. S’era collocato in testa alla carrozza. Sempre immerso nelle sue carte, aveva occupato con i fogli i posti liberi dello scompartimento. Leggeva e non alzava mai il naso … che era piuttosto un nasone vermiglio, proporzionato alla testa massiccia e luccicante di calvizie. Aveva tutto di enorme, anche le mani, tozze e quadrate, e il pancione. Emanava da lui una vitalità calma e forte.
Alcuni fatti avrebbero dovuto mettermi in allarme su questo viaggio. Qualche giorno dopo la partenza avevo chiesto a un controllore quanto mancasse a Selinunte, la mia destinazione, e questi non aveva saputo rispondere. "Che sciocco! – avevo pensato, preso da una strana inquietudine – Quest’uomo trascorrerà la vita fra una stazione di oggi e un’altra di domani, come un pendolo oscillerà avanti e indietro senza considerare che questo treno è arrivato sino a lui da lontano e che proseguirà ancora dopo la sua discesa. Egli non vuole superare i suoi consueti confini, ha paura del nuovo; e ha trovato rifugio proprio nella professione più mobile di tutte!"
Altro fatto strano: il giorno successivo la Riccia aveva cercato di parlarmi. Avevo capito che desiderava rivelarmi qualcosa che aveva scoperto non so come. Per evitare le sue chiacchiere avevo chiuso gli occhi e finto di essere addormentato. Lei se n’era andata mortificata. Chissà cosa voleva dirmi!?
Qualche giorno dopo la Riccia aveva parlato con l’Impaziente sulla banchina, durante una fermata. Capivo che lei stava descrivendo un pericolo non percepito dall’altro. C’eravamo guardati per un attimo. Aveva uno sguardo limpido e profondo. Sorpresa dal mio cenno di saluto, mi aveva invitato a scendere. Perché non le avevo dato ascolto? Cosa mi aveva trattenuto sul treno, la paura di sapere? Dopo il colloquio, l’Impaziente era diventato cupo; i suoi movimenti, sempre a marionetta e a scatti, apparivano rallentati, compiuti con sforzo, come se le sue pile stessero scaricandosi. La Riccia mi aveva dato un’ultima occhiata triste. Era rimasta a terra; sulla banchina ormai deserta, sola, mi salutava con la mano mentre il treno si allontanava.
Alcuni giorni dopo attraversavamo un deserto, i cui colori accesi abbagliavano. Quella terra aspra mi aiutava a cercare dentro di me la verità. Non consideravo nemmeno più il movimento dei viaggiatori. Riservavo qualche pensiero solo ai tre saliti con me alla stazione di partenza …almeno credevo che fosse il capolinea, ma lo era veramente? O esisteva un binario che la collegava a una località più remota? E questa a sua volta … Che strani pensieri!
"Quante cose vorrei aver fatto! – mi dicevo. La vita mi è scivolata sulla pelle senza bagnarmi, come la pioggia su una statua. Non ho mai approfondito. Non sono stato generoso nemmeno con gli amici, non sono stato cattivo nemmeno per reazione. Sono vissuto nella quiete di una ricchezza guadagnata senza sforzo. Indifferente agli altri. Incapace di veri palpiti."
Questi pensieri mi opprimevano. Ogni tanto andavo a osservare l’Impaziente. Egli non percorreva più il corridoio come un ergastolano in libera uscita, rimaneva seduto immobile, lo sguardo allucinato. Quale mistero gli aveva rivelato la Riccia? Il Nasone continuava nei suoi calcoli.
Allora ho capito che ogni avvenimento nasconde un perché. Prima m’ero accontentato delle apparenze. Lasciavo che i fatti scorressero immersi in un fiume casuale. Coglievo le opportunità quando mi capitavano a tiro. Non cercavo di indovinare il futuro e di uscire dalla mia consueta visuale. Navigavo in una bolla di sapone portata dal vento, senza mai chiedermi dove andassi e se ci fosse qualcuno a soffiare nascosto per dirigere il mio movimento. Volteggiavo in un perenne presente senza un pensiero sui fatti accaduti o una rotta mia. Ora rifletto e capisco … non ho scelto il Bene, avessi almeno scelto il Male! Ogni uomo ha in sé l’uno e l’altro, ma io non ho occupato un posto nel campo di battaglia dove i due si affrontano senza sosta!
Qualche giorno dopo l’addio della Riccia, un controllore mi aveva chiesto: "Ancora non ha raggiunto Selinunte?"
Come se dipendesse da me arrivarci e questa non fosse una città, un luogo geografico preciso! L’ho guardato interdetto, ancora adesso non comprendo il senso di quel colloquio.
"Non dubiti – mi aveva rassicurato – riuscirà a trovarla, ci riescono tutti, prima o poi."
Appunto, come se dovessimo andare tutti a Selinunte, ma ciascuno per conto suo. Oppure, come se ci fossimo già e dovessimo solo accorgercene.
L’Impaziente è sceso qualche giorno dopo. Era partito dal capolinea con me, ha compiuto un viaggio di giorni e giorni per fermarsi ai margini di un deserto! Ho riflettuto su questo fatto, sento che nasconde un significato importante.
I passeggeri intanto diminuivano. Il Nasone aveva occupato con le sue carte tutto lo scompartimento. Ogni tanto si fermava a riflettere, distratto da un allarme improvviso.
In quei giorni gli inservienti sembravano seccati. Rispondevano a monosillabi. Mi guardavano come una rarità.
"Insomma – avevo chiesto a uno – questo treno arriva o no a Selinunte?"
Mi aveva risposto: "Lei non ha ancora capito."
Avevo ribattuto: "Ma cosa c’è da capire?"
"Non ne ha il coraggio morale!"
Poi il controllore aveva parlato con il Nasone. Questi lo aveva ascoltato sorpreso, come folgorato da una rivelazione, gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Ogni tanto chiedeva qualcosa, poi assentiva rassegnato. Prima di scendere alla fermata successiva, aveva iniziato a mettere in ordine i suoi fogli, ma poi s’era interrotto come se non contassero più niente. Perché?
Sono ormai solo. Sono scesi tutti. Appena fatta questa scoperta, ho avuto un moto di orgoglio. Percorrevo i corridoi vuoti, entravo negli scompartimenti pieni ancora dei bagagli … tanti erano scesi e avevano abbandonato tutto, ecco un altro mistero! Mi rallegravo e stringevo i pugni alzando le braccia al cielo come un vincitore. Ancora adesso sono dibattuto e m’interrogo sul significato di questa avventura. Perché devo raggiungere Selinunte? Quale richiamo mi ha spinto così lontano? Mi scopro incapace di comprendere le ragioni di questo viaggio interminabile. Sento che incombe una verità amara.
Il treno corre veloce e non riesco a osservare la natura che rinasce. Vorrei fermarmi a guardare gli zampettii degli uccelli, vorrei ammirare i colori dei fiori, le mille cose che ho sempre trascurato. Vorrei tanto scendere un attimo, ma ho paura che il treno chiuda le porte e mi lasci a terra. Osservo tutto come per l’ultima volta.
La solitudine comincia a pesarmi. Attendo con impazienza l’arrivo di un controllore per scambiare due chiacchiere, anche se so già che non otterrò alcuna spiegazione. Egli esclamerà: "Ancora non ha trovato Selinunte?" , "Cerchi di riflettere", m’incoraggerà: "Non si perda d’animo!"
Rifletto tutto il giorno e non mi perdo d’animo, penso ai perché mai affrontati, alle scelte rinviate, all’inerzia che mi ha portato alla deriva. Osservo dal finestrino la vita che scorre. Non riesco a sottrarmi al suo fascino, essa mi attira con forza. Là fuori la natura fiorisce, gli uccelli volano, gli animali corrono … sono reali? O sono immagini e illusioni? Mi basterebbe scendere e toccare con mano per sapere, ma non oso farlo ancora. Domani, forse.

Paolo Cavraro

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