Wake
(4AD, 2003)
Mette sempre un po’ di tristezza recensire i greatest hits di gruppi ormai defunti, ed ascoltare così canzoni a volte memorabili sapendo già che non ne seguiranno altre. E’ facile che la nostalgia prenda il sopravvento, soprattutto nel caso in cui la musica in oggetto abbia essa stessa un tono profondamente nostalgico, magico, fuori dal tempo.
Ha un bel dire l’estensore delle note che potete leggere nel booklet quando, in sede di conclusione, commenta: "contrary to the opinion of some, Dead Can Dance were not obsessed with the past, nor did they provide a sense of nostalgic escape into bygone ages". A prescindere dalle reali intenzioni del duo australiano, come si può negare che perlomeno brani come Saltarello rappresentino un tuffo nel passato bello e buono? Nell’accezione più positiva del termine, intendiamoci: tanto di cappello di fronte ad operazioni filologiche come quella di andare a recuperare melodie tradizionali di epoca tardo-medievale e riproporle utilizzando, nei limiti del possibile, i medesimi strumenti disponibili al tempo.
E’ vero, i Dead Can Dance non sono solo questo. Anche la loro produzione originale, però, non manca di elementi squisitamente retro… e per una volta tanto non stiamo parlando di sonorità degli anni Sessanta! Lo spettro d’influenze del gruppo è di una vastità quasi imbarazzante: canti gregoriani, musica araba, barocca, tribale, rinascimentale, orientale… chi più ne ha più ne metta. Se l’idea di fondere tutti questi elementi è senz’altro modernissima, molte volte il risultato finale ha nondimeno una patina di antichità alla quale è difficile resistere. In alcuni casi (Bird, ad esempio) le sonorità sono ipnotiche, più vicine a certe atmosfere new-age che non a quella di una festa di corte; ma spesso la musica dei Dead Can Dance sembra arrivare fino a noi da qualche misterioso cunicolo spazio-temporale, dopo essere rimasta sepolta per secoli nelle pieghe del continuum.
Tutto questo sulla carta: la realizzazione, però, è mille volte più affascinante e sbalorditiva di quanto le parole possano descrivere. Entrambi i vocalist lasciano a bocca aperta. Lisa Gerrard si libra ad altezze celestiali, laddove la sua voce, in molti frangenti libera dalla costrizione dei testi, diventa uno strumento aggiuntivo, etereo e modulabile come nessun altro; Brendan Perry sembra invece un cantore di storie perdute, riemerso per qualche strano scherzo del destino dalle nebbie del passato e pronto a riprendere una volta di più la sua narrazione, con la voce saggia e solo leggermente roca di chi ormai ha visto tutto ma ancora non può fare a meno di assistere allo spettacolo della vita. Difficile indicare il proprio preferito fra i due. Quando però al microfono c’è Lisa, capita che certi brani abbandonino le vesti di pura e semplice musica per raggiungere le vette di una vera e propria esperienza spirituale: The host of Seraphim è un esempio emblematico di quanto vado dicendo.
I Dead Can Dance sono uno di quei gruppi refrattari ad ogni etichetta, ad qualsiasi categorizzazione, a qualunque tentativo di farne i precursori o i continuatori di questa o quella linea evolutiva della musica moderna piuttosto che contemporanea. Personalmente ho sempre trovato i loro dischi esposti nella sezione rock-pop, e la scelta mi è apparsa ogni volta riduttiva e limitante: mi devo ritenere fortunato, comunque, visto che non bazzico le altre, e quindi in caso contrario non avrei forse mai fatto conoscenza con la loro musica. In effetti la band è stata oggetto in passato di almeo un grosso fraintendimento, che ad un certo punto l’aveva portata ad essere pubblicizzata addirittura come gruppo di rock gotico. Un’analisi un po’ più attenta non può invece fare a meno di constatarne la sostanziale unicità nel panorama musicale. Siccome, però, il recensore è tenuto quantomeno a tracciare un paio di coordinate, dirò allora che i Dead Can Dance possono essere ritenuti parte del mondo del rock solo nell’accezione in cui lo sono i Sigur Rós (altro complesso di difficile collocazione e fruizione, baciato però da una certa fama in virtù del sostegno e delle lodi sperticate ricevute da nomi importanti del giro che conta); ma presentano attinenze anche con la grandiosità di certe colonne sonore di Ennio Morricone, nonché con le suggestioni mediorientali che tanta ispirazione hanno fornito nel corso degli anni a Jimmy Page e Robert Plant.
Dicevo in principio che questo è un greatest hits ‘postumo’. Ebbene sì, i Dead Can Dance in quanto tali non esistono più. Lisa e Brendan però non hanno abbandonato il mondo della musica, dedicandosi in particolare alle colonne sonore: proprio di recente la Gerrard ha fornito l’accompagnamento sonoro al film Whalerider, pubblicando a proprio nome un intero album recante il medesimo titolo. Entrambi, e parlando di Perry mi riferisco soprattutto al suo bell’album solista The Eye of the Hunter, non hanno dilapidato l’eredità del gruppo d’origine: già per questo meriterebbero un bel plauso. Uno ancora più accorato però se lo guadagnano dagli appassionati di tutto il mondo ogni qual volta questi decidono di regalarsi un altro ascolto di capolavori quali Severance, uno dei pochi brani capaci di farmi ancora accapponare la pelle…
Fabrizio Claudio Marcon
Dead Can Dance