KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Terra Rossa

15 min read

Terra Rossa

I would die for you
I would die for you
I’ve been dying just to feel you by my side
To know that you’re mine

I will cry for you
I will cry for you
I will wash away your pain with all my tears
And drown your fear
Garbage

3.
Le due città distavano fisicamente circa cinquanta miglia, ma le loro anime erano l’una agli antipodi dell’altra. Ad Anumix si progettava e ci si interrogava, a Meralba si costruiva e si parlava poco. Non c’erano praticamente contatti tra gli abitanti di Meralba e di Anumix: non per il commercio, visto che le rispettive attività vertevano su campi decisamente diversi, e incompatibili; non per amicizia, visto che l’umore e i pensieri degli uni e degli altri erano concentrati su aspetti diversi della vita. Le due città praticamente si ignoravano. Non rimaneva quindi che tentare l’amore, per unirle. Non rimaneva che il dannato amore, fragile all’apparenza, ma tanto potente da abbattere sia muri che pensieri. L’amore che fa ridere visto da lontano, come un mostro con la maschera da clown, come un dio che fa una smorfia. L’amore che quando ti stringe, non ti molla più.
La vicenda che finì in battaglia e che cambiò piuttosto decisamente le sorti delle due città ebbe inizio in un bel giorno di primavera avanzata di un anno qualsiasi quando il signor Kim Alibel di Anumix, con alcuni cavalieri, bussò alle porte di Meralba.
Kim era un ragazzo come quasi tutti quelli di Anumix, allegro, interessato alla vita e alla verità. Inoltre era figlio del governatore, il ché gli dava la possibilità di non aver altro da fare che nella vita che imparare, e quando uno ha poco da fare, le idee più strane nascono nella sua mente. Doveva, una volta adulto, saper parlare, saper sorridere, saper prendere decisioni; e una l’aveva già presa, ovvero che per imparare queste cose non c’era di meglio che viaggiare. Che poi fosse una scusa, non vi fu dato peso. Hajal gli disse di andare pure, che al suo ritorno avrebbe cominciato sul serio ad occuparsi della città. Kim, desideroso di rimandare il più possibile il fatidico momento, partì.
Era sempre stato curioso riguardo alla città di Meralba. Passò città diverse, e ovunque venne accolto con moderata ma sincera ospitalità; parlando e sorridendo, le case si aprivano al suo passaggio. E talora le donne imitavano le case. Ma sebbene tutti gli dicessero di lasciar perdere Meralba, anzi, proprio perché tutti gli parlavano di Meralba come fosse assolutamente da evitare, gli venne voglia di passarci.
– Non dirò chi sono. Fingerò di venire da lontano.
– Ti butteranno fuori a calci. Se ti va bene, intendo – rispondeva il suo compagno di viaggi, il buon Wismer. Era questo Wismer il completamento di Kim, prudente dove Kim era audace o magari anche incosciente, infaticabile dove Kim era pigro e facile alla noia, discreto dove Kim si faceva trascinare dall’ebbrezza e si esibiva in spettacolari acrobazie verbali. Erano amici da molti anni, ormai, e il figlio del governatore l’aveva in spettacolari acrobazie verbali. Erano amici da molti anni, ormai, e il figlio del governatore l’aveva voluto con sé nel suo peregrinaggio attorno al continente.
– Ma starò là solo poco, giusto per vedere che gente vive in un posto che, come dici tu, è invivibile.
– Esiste ogni genere di persona, al mondo. Ed ogni posto trova qualcuno che l’apprezza. Ma non sarai tu la persona che apprezza Meralba, ed io nemmeno. La differenza è che io so tenere a freno la lingua.
– Be’, vorrà dire che fingerò grandi sorrisi, mi guarderò intorno e poi ce ne andremo.
Un’altra differenza tra i due, infine: Wismer era in grado anche di tornare ogni tanto sulle sue decisioni. Kim no.

Quando si infilò nella piccola coda alle porte della città era pomeriggio inoltrato, con un bel sole a troneggiare nel cielo limpido. Kim e il suo seguito di quattro persone spiccavano per le loro vesti e le loro cavalcature. Un paio di guardie gli chiesero nome e scopo della visita.
– Il mio nome è Kim, e sono un diplomatico di XXXX. Sono interessato a visitare la vostra città, della quale mi hanno parlato molto bene.
– Perfetto. Dovete lasciare qui le vostre armi. Troverete subito un posto dove stare, se avete intenzione di fermarvi per la notte: è qui all’entrata della città. Potrete lasciare lì il resto del vostro bagaglio, e poi chiedete informazioni al locandiere, che farà in modo di far arrivare notizia della vostra presenza a palazzo.
***
– Non possiamo disturbare le attività in corso, se non siete venuto per acquistare. Vi porterò a palazzo, dove il nostro principe vi riceverà.
Il principe Marius era della casa dei Nontai, che da poco più di un secolo governava la città. Era sposato a una splendida donna che veniva dal nord, figlia di un ricco commerciante d’armi che aveva portato le splendide armi di Meralba in tutto il continente. La taciturna moglie di Marius adorava la tranquilla felicità della sua vita a Meralba. I due avevano un’unica figlia, la graziosa Janine dagli occhi scuri come la notte e la morbida chioma nera, una ragazza che avrebbe avuto una parte rilevante negli eventi che seguirono. Janine era cresciuta tra i morbidi cuscini e i colori pastello del palazzo del principe, e come d’uso a Meralba era cresciuta riservata e senza grilli per la testa; nei suoi giochi da bambina nulla la spingeva al contrario. Una delle cose che più amava fare era disegnare con pezzi di carboncino su tele o su pietra bianca, creare qualche semplice figura, cercando magari di raffigurare un luogo o una persona della sua città.
A parte quello, la vita di Janine si trascinò priva di grandi emozioni fino ai sedici anni, quando le venne portato in dono per il suo compleanno un volume rilegato (una cosa piuttosto preziosa per l’epoca) contente dipinti realizzati con varie tecniche, collage di fiori e ali di farfalla, gessi colorati, e altre cose del genere. La maggior parte di quei dipinti rappresentavano paesaggi naturali talmente meravigliosi che Janine stentava a crederli veri. Ma il parente che le aveva portato in dono la rassicurò: il mercante che gli aveva venduto quel volume era stato di persona a vedere molti dei posti rappresentati. Janine venne assalita da un morboso desiderio di andare a visitare quei posti, ma ciò le era reso impossibile dal suo ruolo e dalla sua età. Si accontentò di sognarli: e non mancava di chiedere a ogni viaggiatore di passaggio se avesse dipinti simili da venderle. Ne aveva ormai di bellissimi in camera, alcuni regalati dal padre che aveva notato la sua passione e tutto sommato approvava quel quieto interesse; in attesa che la figlia crescesse e fosse data in moglie al figlio del principe Tomian, della vicina città di Kyahad: il che voleva dire alleanza e protezione, al prezzo di una sola figlia.
Janine, intanto, dipingeva a sua volta. Cercava di perfezionare il proprio talento per pura passione, mischiando imitazione e fantasia; dipingeva per ore e ore, consolandosi così per l’amara considerazione che probabilmente non avrebbe mai visto quegli splendidi posti. A furia di passarci le giornate, era diventata piuttosto abile, cosicchè i suoi dipinti si mescolavano in mezzo agli altri, arrivati dal continente, e non si sarebbe notata la differenza, a prima vista. La sua camera era ormai un’esposizione permanente di tramonti e vette e mari sterminati e splendide principesse e cavalieri e altre cose simili.
E l’arte la rese bella, del resto. I sogni illuminarono i suoi occhi, e l’ansia del desiderio accese i suoi sorrisi e le sue emozioni.

Il signor Kim giunse a palazzo, e lasciò che i suoi uomini aspettassero fuori – che si bevessero pure una birra all’osteria più vicina. Impiegarono un sacco di tempo a trovarne una, e rimpiansero la loro città.
Kim entrò e il principe Marius lo accolse con calore, nonostante la disaffezione. Mascherò bene la sua diffidenza e gli offrì di fermarsi pure a visitare la città – ma di aspettare, intanto, un momento al fresco del palazzo, perchè aveva delle cose da sistemare – solo qualche momento. E fin da subito lo invitò al banchetto che proprio quella sera si sarebbe tenuto nel suo palazzo.
La signora era persa da qualche parte, si sa, le mogli dei governanti sono sempre piene di impegni; così Kim girovagò da solo per il palazzo. La sua meraviglia si posava su tutto, la sua curiosità era senza preconcetti. Notava il rigore che caratterizzava perfino le decorazioni, ma sorrise e imparò a capire. E così fece più tardi, mentre passeggiava per la città. Si sentiva solo, in mezzo a tanta gente indaffarata: vedeva giovani splendide donne che portavano ceste da un edificio all’altro, e uomini pieni di polvere e di barba tutti presi a caricare o scaricare i loro carri, bestemmiando in qualche oscuro dialetto della provincia; vedeva il sole illuminare specchi e lame meravigliose, esposte dietro vetri in un negozio vicino al palazzo, e il gestore del negozio, vestito di ricche vesti ornate, con una sorta di camicia lunga e pantaloni appena sotto il ginocchio, in colore chiaro. Vide poi un gruppo di ragazze in un giardino, conversare, mentre una di loro disegnava qualcosa su un foglio di carta. E sorrise mentre loro si giravano e sorridevano. Una lo guardò a lungo. Lui tenne lo sguardo accendendola di timidezza. Arrossendo, quella tornò al suo disegno. Kim passeggiò ancora, fino a che fu sera, e iniziò il banchetto.
C’era una gran voglia di divertirsi, e il vino scorreva. In quella serata di festa, la dura Meralba perdeva un poco la testa e non sembrava poi così lontana dalla sua Anumix. Il giovane si calò con gioia in questa inattesa aria giocosa, bevve con chi beveva, parlò con chi gli parlava, abbracciò uomini e donne che lo vedevano straniero e porgevano il loro benvenuto. Ma a chi fa festa in casa d’altri conviene mantenere la lucidità, si disse nel bel mezzo della festa. Chiese il permesso, s’alzò, andò in bagno e si lavò abbondantemente il viso. Era come nuovo. Che pace, in quest’ala del palazzo! Decise di non affrettarsi a tornare. C’era tempo ancora per la confusione. Passeggiò cercando i segni delle anime in quel palazzo così freddo.
E trovò la bellezza di un viso in mezzo all’austerità degli arredi. Tra due quadri s’apriva una finestra, e da lì vedeva le altre ali del palazzo, dove presumibilmente c’erano altre camere e altre vocianti tracce d’alcool. Ma mentre scorreva le finestre piene di confusione e di vecchi abbracci, un altro altero vetro gl’inviò la dolcezza di un viso femminile, vero, respirante. Era una finestra dell’ala di fianco, dove se ne stava assorta una ragazza mora, splendida. Altre persone erano nella stanza, alle sue spalle: altri ragazzi e ragazze dai quali la bellezza alla finestra s’appartava. Kim la osservò a lungo, prima che quella s’accorse di lui. Kim la riconobbe improvvisamente per la ragazza che quel pomeriggio aveva incontrato nella città, quella che dipingeva e che l’aveva guardato a lungo. Venne ricambiato da uno sguardo incuriosito, dapprima, poi emozionato dall’ammirazione che si leggeva sul volto del giovane, e infine abbassato dal pudore. Circa cinque o sei metri distava l’ammirazione dalla bellezza. E a un certo punto la giovane si voltò verso la stanza, disse qualcosa, guardò ancora Kim un’ultima volta e si dileguò circondata dalle altre persone. Non c’era più.
Kim tornò nel salone principale, dove s’era cominciato a danzare. Cercò con gli occhi tra la folla, tra il rumore e la confusione, cercò, ed eccola, la sua bellezza mora. Ballava disattenta con uno di quei vandalici confusionari ragazzi, uno di quei muli che lavorano come matti senza badare nè all’arte nè alla vita, e poi quando arriva il sabato del villaggio si scatenano come cani lasciati improvvisamente liberi dal guinzaglio, corrono, travolgono, mancano di rispetto, e ballano come vivono, con cattivo gusto.
Ma la bellezza dai capelli mori si distraeva dal suo compagno, cercava ancora con lo sguardo il giovane Alibel, che l’aveva colpita con i suoi occhi chiari. Kim attese la fine del ballo, la inseguì da presso come si farebbe con un animale da addomesticare, l’ebbe finalmente vicina nei pressi di un tavolo porta vivande, e le parlò allora.
– Bellezza, bellezza… come ti chiami, bellezza?
– Dici a me, ragazzo?
Selvaggia per finta, lo si poteva capire dal suo sorriso.
– Dico proprio a te.
– Pensavo parlassi da solo. Io sono Janine. E tu, invece?
– Il mio nome è Kim.
– Non ti ho mai visto. Vieni da fuori?
– Esattamente. Ma ora che sono qui non vorrei più tornarci, fuori.
– Ti piace così tanto questa città?
– Mi piaci così tanto tu, bellezza.
Avanzò verso di lei e la baciò senza nemmeno darle il tempo di esitare. Janine pensò per un istante di gridare, o comunque di girarsi, chiedere aiuto, ma poi l’abbraccio delle sue labbra la tradì, la ingannò, la legò completamente, e quando si girò fu solo per controllare che nessuno li guardasse, per poterlo baciare di nuovo.
– Non male, per uno sconosciuto – gli disse infine.
– Non hai ancora visto niente.
– Stai attento.
– Starò attento, perchè se mi perdo ancora un poco in te non troverò mai più la strada di casa.
– Certo hai le labbra pronte, e non solo per parlare.
– Tu me le hai appena benedette.
– Sicuramente era già terra benedetta, o sbaglio?
– Janine! – gridò qualcuno. I due si allontanarono di poco, e guardarono altrove, come non si fossero mai visti.
– Janine! Vieni! Ti chiama tuo padre.
E la bellezza se ne andò, fuggì rapida tra la gente lanciandogli solo uno sguardo sorridente d’intesa. Lo lasciò lì tra vino e dolcetti di pastafrolla.
Il giovane lasciò passare qualche minuto di esitazione, poi decise di non rimanere a rodersi il fegato. Fece per rientrare nella folla, quando incontrò Marius, e con un sobbalzo notò la bellezza mora al suo fianco. Fu incuriosito, poi spaventato, ebbe un terribile presentimento. La guardò confuso, ricambiato da altrettanta confusione sul viso di lei.
– Salve, giovane Kim. Mi chiedevo dov’eri finito. Ti stai divertendo?
– Sì, principe, sì -, rispose, ma non riuscì a evitare di scivolare con lo sguardo sulla ragazza, e incontrare i suoi occhi scuri.
Marius lo notò.
– Oh, perdonami! Non ti ho presentato mia figlia, Janine.
Un’ombra scura scese sul volto dei due giovani. Entrambi rimasero in silenzio.
– Non ti facevo così timido – proseguì bonario Marius. – Janine, questo è Kim Alibel, figlio del governatore di Anumix, Hajal.
E a questo punto fu il panico nel cuore dei ragazzi.

4.
Marius sapeva di avere una bella figlia, e che tutti i quasi i ragazzi a cui veniva presentata rimanevano stranamente ammutoliti di fronte a lei. Il fatto strano era che anche Janine fosse rimasta ammutolita. Non le capitava spesso. Questo poteva voler dire che era stata colpita. Ma non da un uomo di Anumix, che diavolo! Tutto, ma questo no. Bene, domani Kim sarebbe ripartito e la sua Janine avrebbe ricominciato a disegnare in attesa di crescere e sposare colui che doveva sposare. Niente strane idee.
Questo pensiero lo attraversò un istante mentre si allontanava da Kim con Janine sottobraccio. Poi qualcuno gli mise in mano un altro bicchiere di vino e il suo dubbio naufragò lì, nel liquido rosso sangue che qualcuno aveva ottenuto massacrando dell’innocente uva.

Kim aveva mangiato troppo poco per fare indigestione, e quindi quella stranezza che sentiva nelle viscere non poteva che essere il frutto di un’emozione violenta. Pescò al volo un bicchiere di vino, lo tracannò tutto d’un fiato, e lasciò che la sua mente si ottenebrasse per riconsegnare un poco di tranquillità al suo sistema nervoso. Ubriacarsi è un ottimo modo per chiudere la porta agli stimoli del mondo esterno.
Una bellezza simile, uno spirito così pronto, figlia del principe Marius? Incredibile. Ma del resto era venuto per imparare, con la mente aperta. Tutto preso dalla mente, non aveva badato al cuore e proprio lì era stato colpito.
– Santo Cielo.
Non era tipo da aspettare, calcolare, ragionare. Bevve ancora qualche bicchiere di vino ma l’adrenalina nel suo sangue gli fece dimenticare l’effetto dell’alcol, e rubò a Janine ogni sguardò che potè senza destare l’attenzione. Poi la ragazza si ritirò, ma salendo le scale, rubò al tempo un attimo di immobilità, ebbe un secondo nel quale tutti guardavano altrove, come l’invisibilità di certi maghi oscuri dell’altro continente, e lanciò una lunga occhiata seria a Kim, densa di mistero, di serietà, un’occhiata non per fare colpo, non per cercare ammirazione, ma per chiedere certezze. Era come una richiesta d’aiuto. Quegli occhi imploravano Kim di essere qualcun altro. E chiedevano di rispondere subito alla sua richiesta.
Il giovane di Anumix a questo non poteva acconsentire. Lesse l’incerta domanda di Janine, ma lui non era nessuno e quindi non poteva essere qualcun altro. Kim non era un nome, non era un figlio, non era un cittadino. Kim era un viaggiatore e come tutti i viaggiatori era un’insieme di ricordi e di circostanze. Non avrebbe potuto cambiare nemmeno se lo avesse voluto. Poteva solo adattarsi cercando di essere nel posto giusto al momento giusto: nella determinata situazione, questo voleva dire arrampicarsi cercando di passare inosservato fino alla camera di Janine. Lasciò passare qualche minuto, dopodichè si assentò furtivo, e cercò di ricordare qualcosa delle lezioni che aveva ricevuto nelle città vicine, i cui abitanti erano certo più abituati alle situazioni pericolose che non i giovani pensatori di Anumix.
S’allontanò in direzione del giardino, e là sotto le stelle cercò di nuovo se dietro i vetri delle finestre vi fosse il bel volto di Janine. Attese lunghi minuti, cercando di non farsi sorprendere da qualche ospite magari in dolce compagnia; poi l’ansia dell’attesa l’ebbe vinta sulla preoccupazione, e s’arrampicò con fatica fino ai piani superiori. Cercò appigli ovunque: strappò alcuni pezzi del rampicante che abbracciava il palazzo, pensò più d’una volta che inciampandosi e cadendo avrebbe potuto farsi male sul serio, e scivolò un paio di volte riuscendo miracolosamente a rimanere attaccato a fragili sostegni. Poi finalmente si trovò sul davanzale della finestra, e proprio al centro della stanza la bellezza mora stava seduta a un tavolo rotondo.
Non c’era nessun altro nella stanza: Kim si fece coraggio e bussò piano al vetro. La ragazza si voltò con uno scatto, sospettosa, poi un sorriso e una vampata di rossore commentarono senza parole la sua gioia.
– Kim, pazzo, cosa fai qui?
– E’ impossibile per me andarmene via adesso. Ora che ti ho conosciuto fin troppo, non posso andarmene senza parlarti ancora.
– Se ti trovano qui, non ti servirà a niente parlare. Mio padre è gelosissimo.
– Sai? Non m’interessa. Tu vali la pena di tutto questo e di molto altro.
– Pazzo amante… non credere che io non adori questa tua pazzia, del resto. Ma che intenzioni hai?
– Voglio avere il tuo amore.
– Oh santo cielo! Come corri!
– Ho paura che se ti perdo stasera, non ti ritroverò più. E così non dev’essere.
– Non mi perderai, non mi perderai, ma non farti trovare qui, altrimenti sarò io a perdere te.
– Bellezza…
Kim era ancora sul davanzale, quando la cinse con un braccio e l’attirò a sè. La baciò ridendo, e Janine si lasciò baciare tra sorrisi e sbuffi e piccole imprecazioni.
– Mia bella disegnatrice, quando posso tornare a trovarti?
– Vorrei poterti dire "adesso", che tornassi non appena te ne fossi andato. Ma che ti posso dire? Non ho il permesso di girare per la città da sola, e mi ci vuole tempo per organizzare un incontro furtivo.
– E perchè mai dev’essere furtivo? Sei forse già promessa? Già legata?
– Santo cielo, questo no…
– E allora io ti voglio sposare. Ed ecco come voglio avere il tuo amore.
– Cielo, la fortuna mi è caduta addosso stanotte. Cosa ho fatto per meritare questa ricompensa? Tu arrivi improvviso, m’illumini la notte e mi vuoi sposare? Ti sposerei anche subito.
– Subito sarebbe segreto, e solo le cose sporche vanno tenute segrete. Non c’è nulla di sporco in noi, e dunque nulla da tenere segreto. Chiederò subito il permesso a tuo padre.
– Oh sì, ma chissà, avrà dei problemi, tu sei di Anumix, e mio padre non vi ama. Avrà sicuramente da ridire.
– Lo convincerò. Tu sarai mia, Janine.
E firmò la sua affermazione con un altro lungo bacio.
– Stai buono, disgraziato, aspetta. Stai buono, torna a trovarmi domani notte, quando i miei genitori saranno fuori fino a tardi. E poi torna a trovare mio padre, cerca di conoscerlo, prima, e di farti conoscere. E’ da prendere con le pinze.
– Come sei timorosa!
– Senti, bello, non confondere il timore con la saggezza. Ti adoro, sai? Ma so anche chi è mio padre. Non avere fretta. D’accordo?
– D’accordo, se tu vuoi così, sarà così.
– Senti, sta per arrivare qualcuno. Ora vattene, tesoro mio.
– Vado, vado, bellezza, ma che tristezza.
– Niente storie, ne va di tutti e due, vai, vai.
– Buonanotte, amore.
– Buonanotte, buonanotte. Vai, prima che ti vedano, vai.
Janine chiuse bruscamente la finestra e Kim quasi cadde di sotto, mentre la madre di Janine entrava in camera con la cameriera.
– Non sei ancora a dormire, tesoro?
– Non ho sonno, mamma – rispose la ragazza cercando di non guardare negli occhi la madre. – Penso che disegnerò un po’.
– E’ una buona idea. Non fare troppo tardi, però. Ti voglio bene, piccola mia – concluse la madre con un bacio sulla fronte di Janine. La ragazza pensò alla differenza tra quel bacio e quelli di poco prima, uno d’affetto e gli altri di passione, diverse espressioni di quella stessa cosa strana e indefinibile chiamata amore. L’amore era decisamente sceso su di lei, in quella dolce sera di primavera. E con quella gioiosa inquietudine nel cuore che accompagna le improvvise felicità, Janine sognò a lungo ad occhi aperti prima di addormentarsi.


Alessandro Zanardi (continua)

Altri articoli correlati

7 min read
6 min read
1 min read

Commenta