Appuntamento piuttosto nutrito questo mese… due recensioni datate 2002 ed altrettante dell’anno precedente da riprendere in mano per vedere se il tempo è stato impietoso o ha ridato nuova linfa ai prodotti in questione.
Cominciamo dall’anno scorso. Satellite dei P.O.D. non è, con ogni evidenza, uno di quei dischi pensati per entrare nella storia della musica e rimanerci in pianta stabile: convoglia una quantità tutt’altro che irrilevante di energia positiva e di vitalità, ma in ultima analisi rimane un album sulle cui note scatenarsi in pista fino a quando qualcosa di più recente non vada a sostituirlo nelle scalette del dj. Questo compito Satellite lo assolve comunque con gusto ed efficacia non comuni, forte di lyrics valide e di un impatto strumentale potente ma non fastidiosamente rozzo. A distanza di tempo si possono ancora apprezzare le coinvolgenti Boom, Alive, Satellite, Messenjah e Youth of the Nation (della quale però è ancora vivo il ricordo dell’overdose mediatica), senza dimenticare un brano curioso e assai gradevole come Ridiculous.
Sono costretto a ribadire che la fama di cui paiono godere i Down in ambito underground mi sembra francamente immotivata, o comunque assai superiore ai loro effettivi meriti così come traspaiono dalle note di II. Come indicai all’epoca, non riesco a definire la proposta di quest’album altro che "monolitica", dominata com’è da pesanti e ripetitivi riff dal primo all’ultimo solco. Su questa basi, parecchi altri gruppi hanno costruito carriere dignitose senza essere avvolti dal sacrale alone di rispetto di cui godono i Down, ne’ tantomeno annoverando in formazione così tanti mostri sacri della musica heavy moderna. Come indicavo allora, la sensazione è che personaggi di tale calibro potrebbero e dovrebbero proporre qualcosa di più.
Passando al lontano 2001, trovo un’altra conferma alle impressioni espresse allora riguardo ad Exciter dei Depeche Mode. Particolarmente se paragonato al recente lavoro solista di Dave Gahan, quell’album mi sembra un mezzo passo falso: privo di grande personalità, foriero di una sola manciata di canzoni sopra la media, in sostanza un’aggiunta senza grossa infamia ma anche senza alcuna lode particolare alla nutrita e qualitativamente notevole produzione dei Depeche Mode. Che si tratti di un gruppo i cui giorni migliori sono ormai lontani nel tempo è ipotesi degna di considerazione, sebbene apparentemente smentita dalla pubblicazione in pieni anni ’90 di quel gran colpo di coda che è Ultra; definirla però una band agli sgoccioli non mi pare comunque affatto giustificato.
Un altro disco che mi sono trovato a recensire quello stesso mese è Songs from an American Movie. Vol.II degli Everclear. Alla band capitanata da Art Alexakis è toccato in sorte un curioso destino: nata sullo scorcio del movimento grunge, ne aveva inizialmente assorbito tutte le istanze arrivando però al successo fuori tempo massimo e guadagnandosi così la fama, forse immeritata, di dispensabile copia carbone di gruppi ormai consegnati alla storia; evolutasi in direzione di sonorità più scopertamente pop, aveva spiazzato tanto i detrattori quanto i sostenitori, finendo con il confezionare un album ne’ carne ne’ pesce come So Much for the Afterglow; infine, recuperato all’improvviso smalto e carattere, aveva dato alla luce la prima metà di questo progetto discografico pensato sulla lunghezza di due album. Il presente secondo volume è molto convincente: a lungo andare la sua compattezza gli fa forse perdere qualche punto nei confronti del primo, che ha dalla sua un minore impatto immediato ma una manciata di brani forse superiori se presi singolarmente; ma nondimeno lo rende un lavoro al quale far ritorno con piacere di tanto in tanto, soprattutto per riprendere tracce come Misery Whip, Rockstar, Out of my Depth o anche lo strumentale Halloween Americana. A mio avviso, gli Everclear potrebbero avere un discreto mercato anche in Europa: la loro fama oltreoceano è consolidata, sebbene non smisurata, mentre da noi non paiono godere di alcun credito presso i media ed i grandi distributori, al punto che un loro video sulla locale MTV o un loro disco sugli scaffali di un negozio nostrano sono una squisita rarità. Peccato, perché con il tempo Art ha saputo disfarsi almeno di parte del suo bagaglio autobiografico (sebbene i temi legati alla sua problematica infanzia ed adolescenza continuino ad essere il cardine attorno al quale ruota la maggior parte della sua produzione artistica) e trasformarsi in abile costruttore di insidiose melodie pop-rock, forte di una cultura musicale imprevedibile che lo porta a citare continuamente i grandi capisaldi del rock melodico americano: una proposta diretta e catchy, insomma, ma non incolta.
La mano del tempo
Fabrizio Claudio Marcon