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Legitimatio ad bellum

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Legitimatio ad bellum:
II guerra del Golfo e uso della forza in diritto internazionale

"La teoria della guerra come atto e strumento idoneo
alla risoluzione delle controversie internazionali
è ormai anacronistica"
(Pio XII, Messaggio per il S. Natale, dicembre 1944)

Mentre sto ultimando di scrivere questo articolo, la II guerra del Golfo si è ormai
conclusa10 e l’Iraq, pur subendo ancora il fuoco e l’occupazione delle forze angloamericane, pare caduto in uno stato di caos assoluto da cui uscirà, forse, solo grazie ad un protettorato militare americano.
Secondo alcuni, dunque, commentatori ed analisti dovrebbero astenersi dal pronunciarsi sino a che la Storia, tra 50 o 100 anni, non emetta un suo giudizio e, magari, anche dopo farebbero meglio a non esprimersi (in particolare se il loro pensiero fosse ostile agli Stati Uniti). Io, però, non sono né un commentatore né un analista: sono un giusinternazionalista e, per questo, mi limiterò ad esaminare i recenti avvenimenti bellici e le condotte dei soggetti coinvolti solo alla luce delle prescrizioni di questa branca del diritto.
Può essere utile partire dal concetto di "guerra giusta" o bellum iustum, utilizzato già da
Grozio9 nel De iure belli ac pacis, ma che si pone nella linea tradizionale intrapresa da San Tommaso d’Aquino8 alla questione XL, De bello, della sua Summa theologiae7. San Tommaso distingueva le guerre giuste da quelle ingiuste, individuando tre condizioni necessarie da verificare volta per volta: che la guerra sia stata decisa da chi legittimamente detiene il potere dello Stato; che la causa sia giusta o che tenda a rimediare un torto subito; che l’intenzione di chi detiene il potere, il monarca, sia buona o tenda a promuovere il bene (o ad evitare il male). Rifacendosi in più passi a Sant’Agostino e alla Bibbia, comunque, individuava nello stesso sovrano che prendeva la decisione di muovere guerra l’unico giudice che doveva e poteva esprimersi riguardo alla presenza o meno delle condizioni. Grozio, dal canto suo, ritiene che la guerra non sia illecita in quanto tale; anzi, la stessa nozione di "guerra giusta" implica per lui, in maniera abbastanza tautologica, la compatibilità tra guerra e giustizia. Affinché la guerra sia giusta, devono essere giuste le sue cause: la legittima difesa, il recupero di beni propri, la punizione di un torto o di una violazione, il recupero di ciò che è dovuto. Si vede chiaramente che è esclusa la guerra cosiddetta "d’aggressione", tipica di una società pregiuridica, mentre si riconferma la possibilità per il sovrano di invocare una iusta causa per dichiarare una guerra giusta.
Tanto in San Tommaso quanto in Grozio, dunque, la decisione di dichiarare guerra è attributo del potere legittimo, del principe, del re, del signore, e mancando un giudice dei sovrani, ciascuno giudicherà autonomamente la giustezza della causa addotta.
Tale dottrina, tecnicamente, è circolata fino ai giorni nostri con
alterne fortune6 ma dal punto di vista del diritto, a partire dalla fine della II Guerra Mondiale e con la nascita del sistema delle Nazioni Unite (1945-1948), il principio che si è imposto nella comunità internazionale è quello solennemente sancito all’art.1 dello Statuto delle Nazioni Unite5 ove si dice che, tra gli obiettivi dell’Organizzazione, il primo è il «mantenere la pace e la sicurezza internazionale», con la conseguente messa al bando della guerra o, come suol dirsi in diritto internazionale, dell’uso della forza quale minaccia della pace o atto di aggressione.
Ciò non significa che l’uso della forza sia bandito sempre e comunque, bensì che il ricorso alla violenza di stato viene regolamentato e inscritto in un sistema di rapporti tra Stati ove si riconosce la superiorità di un soggetto terzo imparziale, le Nazioni Unite o, meglio, il Consiglio di sicurezza. Tant’è che nello stesso Statuto delle Nazioni Unite si riconosce un uso legittimo della forza quale extrema ratio per mantenere o ristabilire la pace con la previsione di «azioni coercitive» (art.45) anche «con forze aeree, navali o terrestri» (art.42) «alle dipendenze» del Consiglio di Sicurezza (art.47, comma III) e comunque, ove siano utilizzate forme diverse da quelle previste dal capitolo VII, «sotto la sua direzione» (art53, comma I).
Si capisce facilmente che tra guerra e uso legittimo della forza non vi siano solo differenze formali, per quanto importante sia comunque il rispetto delle forme previste dal diritto positivo, ma di vera sostanza: la guerra è per sua natura un uso incontrollato della forza tendente ad annientare il proprio avversario (giungere dunque alla debellatio del nemico), con i soli limiti posti oggi dal sistema convenzionale del
diritto di Ginevra4; la legittimità dell’impiego della forza, invece, è data dall’uso di quei soli mezzi ritenuti strettamente necessari al mantenimento o ristabilimento della pace e, proprio per questo, posto sotto il costante controllo del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite.
Se questo è, in abstracto, il quadro logico-giuridico in cui deve inserirsi l’uso della forza militare per potersi ritenere legittimo, cerchiamo di leggere ciò che è successo negli ultimi mesi in Iraq alla luce di tale regolamentazione internazionale per poi trarne delle conseguenze.
Nel documento del settembre 2002 intitolato The National Security Strategy of the United States of America, l’Amministrazione Bush afferma che il sostegno dato al terrorismo internazionale e il possesso di armi di distruzione di massa configurerebbero minacce alla sicurezza internazionale di tale entità da legittimare un’azione di forza ancor prima che una reale minaccia si sia realizzata. Tale azione di autotutela preventiva contrasta con il dettato dell’art.2 par. 4 della Carta delle Nazioni Unite che obbliga gli Stati ad «astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza»; la stessa Carta, poi, ne permette l’impiego solo nell’ambito di operazioni condotte sotto la direzione o per impulso del Consiglio di Sicurezza in base al cap. VII o nel caso previsto dall’art.51 per esercitare una difesa legittima in risposta ad una aggressione reale.
Secondo la Carta dell’ONU, l’esistenza di una minaccia non giustifica mai un intervento unilaterale, ma soltanto l’adozione di misure adeguate da parte del Consiglio di Sicurezza; questo a maggior ragione quando la minaccia è solo ipotetica come nel caso di specie in cui non è stato provato né il reale possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq né la volontà di farne uso contro territorio o cittadini statunitensi.
A questo punto non sembra azzardato affermare che, come affermato dalla dottrina Bush, gli Stati Uniti si propongano di istituire un novo ordine mondiale svincolato dalle classiche regole del diritto internazionale generale ove, al posto delle Nazioni Unite quale garante del rispetto delle regole di convivenza, vi siano gli stessi USA che impongono il proprio diritto, quello del più forte.
Non si può non riconoscere che, spesso, lo stesso Consiglio di Sicurezza si è dimostrato inefficace a fronteggiare situazioni di crisi internazionale; ma questo, dovuto alla struttura stessa dell’organo uscito dalle ceneri della II guerra mondiale e alla persistenza del diritto di veto in capo ai cinque
membri permanenti3, non può essere motivo valido per considerare non più vincolante il sistema convenzionale venutosi a creare intorno all’Organizzazione stessa ma, eventualmente, dovrebbe spronare gli Stati membri della comunità internazionale ad adoperarsi per una sua riforma in chiave maggiormente democratica e rappresentativa degli attuali e differenti equilibri geopolitici. Quindi, in presenza di un attacco armato, l’inattività del Consiglio di Sicurezza o l’inefficacia dei suoi pronunciamenti, lascia intatto il diritto dello Stato aggredito di reagire per legittima difesa ex art.51 della Carta, mentre non si può sostenere che il ricorso alla forza sia legittimo per rispondere ad una presunta minaccia di aggressione verso la quale, proprio perché presunta, tale organo non ha preso posizione: ciò porterebbe all’arbitrio totale nelle relazioni tra Stati.
Secondo l’opinione di alcuni giuristi statunitensi, si starebbero formando delle consuetudini in diritto internazionale generale tali da fungere quali eccezioni al divieto dell’uso della forza. Innanzitutto, risulta utile allora precisare cosa si intenda per consuetudine in diritto internazionale, vale a dire un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, con la convinzione dell’obbligatorietà del comportamento stesso (ciò che i nostri padri latini individuavano negli elementi della diuturnitas e dell’opinio iuris sive necessitatis). A questo punto, è necessario verificare in quale direzione stiano andando gli atteggiamenti dei singoli Stati e delle Organizzazioni internazionali, universali e regionali, nei casi di uso della forza: si può constatare che nelle prese di posizione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nelle Dichiarazioni dell’Assemblea Generale e in numerosissime pronunce della Corte Internazionale di Giustizia (tutti organi rappresentativi della comunità internazionale) è sempre ribadito e confermato il principio condiviso e fermo del ripudio dell’uso della forza, e le sue violazioni sono sempre accompagnate dall’invocazione dell’eccezione prevista dall’art.51 o motivate dal consenso dello Stato destinatario dell’intervento. I due elementi sono quindi confermati.
Vi è un altro aspetto che occorre in questa sede verificare, ed è quello relativo all’ampliamento della facoltà di reagire in legittima difesa ex art.51 dinanzi a fenomeni di particolare rilievo quali gli attentati terroristici intesi come nuova forma di aggressione. Bisogna ricordare che il ricorso alla forza, pur considerato legittimo quale extrema ratio per uno Stato vittima di un attacco, deve rispondere ai criteri della necessità, immediatezza e proporzionalità, e costituisce un rimedio del tutto eccezionale esperibile solo in mancanza di altre misure. Nel caso di specie che si sta esaminando, tutti i criteri risultano mancanti: non si tratta di una risposta necessaria (dal momento che ben si potrebbe rispondere altrimenti), né immediata (l’aggressione cui rispondere non si è ancora verificata), né proporzionale (non c’è bisogno di portare le cifre sulle forze in campo per rendersene conto), né eccezionale (gli Stati Uniti hanno da subito mostrato la loro volontà di arrivare ad uno scontro armato finalizzato alla conquista militare dell’Iraq).
Per quanto riguarda, poi, la giustificazione addotta dall’amministrazione USA per l’attacco all’Iraq, vale a dire la violazione degli accordi sul disarmo e sul possesso di armi di distruzione di massa, bisogna riconoscere che, se pur violazione vi fosse (ancor tutta da dimostrare!), non integrerebbe di per se stessa gli estremi richiesti per configurare un’ipotesi di aggressione.
Anche in passato, la pericolosità di armamenti realmente posseduti da uno Stato non è stata ritenuta violazione dell’art.2.4 della
Carta dell’ONU2: ad oggi, dunque, data la diffusione di certe armi e la facilità di procurarsene per tutti gli Stati della comunità internazionale, risulterebbe assai pericoloso estendere la possibilità di appellarsi al diritto di legittima difesa per giustificare l’uso della forza nei confronti di uno Stato che semplicemente possiede, o si ritenga possa possedere, armi di distruzione di massa. I rapporti tra Stati sarebbero sottratti ad ogni controllo e l’arbitrio regnerebbe incontrastato.
Parimenti ingiustificato risulta un richiamo alla pretesa inottemperanza da parte del governo iracheno delle prescrizioni in materia di disarmo contenute in risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottate al termine della I guerra del Golfo (1991): solo lo stesso Consiglio di Sicurezza sarebbe, nel caso, legittimato ad intraprendere ulteriori azioni, tra cui, magari, l’uso della forza, per il ristabilimento dell’ordine internazionale violato. Allo stesso modo, è assai arduo ritenere tuttora valida l’autorizzazione all’uso della forza contenuta nella risoluzione 978 (1990), base del primo intervento in Iraq in seguito all’invasione del Kuwait.
Purtroppo, ciò a cui abbiamo assistito inermi è stata una campagna militare condotta nella più classica delle forme: una grande potenza interessata ad imporsi su un territorio particolare ove esiste un potere debole impiega tutti i suoi mezzi per giungere alla totale debellatio dell’avversario e, quindi, soggiogarlo. Tutto ciò, senza la benché minima cura del diritto internazionale generale, delle norme di condotta da tenere nei conflitti armati e della comunità internazionale.
Nonostante questo, noi crediamo fermamente in quello che anche il Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha ribadito a più riprese, vale a dire che «solo un approccio multilaterale e globale sotto l’egida delle Nazioni Unite può costituire una garanzia dell’efficacia della lotta al
terrorismo internazionale1».
L’accettazione del ruolo fondamentale dell’ONU nella gestione della crisi irachena avrebbe tributato a tale Organizzazione il riconoscimento che serviva per avviare una nuova era delle relazioni internazionali e, magari, aprire il nuovo millennio nella prospettiva della possibilità di costruire un nuovo ordine mondiale basato su relazioni pacifiche e regolato dalle stesse Nazioni Unite riformate. Invece, la II guerra del Golfo ha assunto delle caratteristiche molto simili a quelle della conquista delle Americhe nel XV-XVI secolo: vi si porta la democrazia perché da soli non riuscireste a raggiungerla, in cambio prendiamo solo il vostro petrolio (allora fu: vi portiamo la cristianità, in cambio del vostro oro e delle vostre ricchezze!).
Sembra proprio che l’Uomo non impari nulla dalla Storia!
Noi, però, continueremo a sollecitare riflessioni e a scuotere le coscienze dei dormienti (o almeno cercheremo di farlo).

Davide Caocci


"La nostra miglior difesa è un attacco adeguato"
(George W. Bush, The National Security Strategy of the USA, settembre 2002)




1
Riunione del Consiglio di Sicurezza del 12 novembre 2001.

2
Cfr. parere della Corte Internazionale di Giustizia dell’8 luglio 1996, sulla liceità dell’uso delle armi nucleari.

3
USA, Russia, Cina, Regno Unito e Francia.

4
Cfr. le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e i due Protocolli addizionali del 1977 relativamente al diritto internazionale umanitario.

5
Adottato a San Francisco, il 26 giugno 1945; entrato in vigore il 24 ottobre dello stesso anno.

6
Cfr. Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste, 1990.

7
In quest’opera teologica, Tommaso prende in esame i molteplici aspetti della vita nell’ottica, propria del Medio evo cristiano, di riconduzione ad unità del tutto, quindi di regolamentazione di ogni comportamento umano da parte della teologia.

8
San Tommaso d’Aquino (1224 o 1225-1274), uno dei padri della Chiesa.

9
Hugo de Groot (1583-1645), giurista olandese, considerato il fondatore del diritto internazionale e della sua umanizzazione.

10
20 marzo – 9 aprile 2003.

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