La primavera dell’anno scorso mi aveva portato in dote ben tre CD …credo si tratti del mio massimo storico da quando scrivo su queste pagine virtuali.
Gli Hoobastank mi avevano destato un’impressione assai positiva. Li avevo visti in concerto come spalla degli Incubus senza conoscere alcun loro brano e nondimeno il loro live set era stato una molla sufficiente per spingermi a procurarmi l’omonimo disco d’esordio. Come parecchie band giovani e giovanili, mi pare di poter dire che essi mantengano anche a lungo andare una certa freschezza all’ascolto ma perdano nel contempo l’effetto novità. Le canzone prese singolarmente sono tutte carine e ben prodotte, però dopo un buon numero di ascolti sembrano non aver più molto da dire. Sono tuttora convinto, ad ogni modo, che il loro secondo album meriterà un ascolto approfondito: i quattro hanno senz’altro margini di miglioramento.
I Puddle of Mudd hanno nella sfacciata derivazione nirvaniana tanto il loro pregio che il loro difetto: affiliandosi ad un filone di sicuro successo, seppur con qualche anno di ritardo, si sono garantiti visibilità e hanno allietato il pubblico da tempo orfano di Cobain; allo stesso tempo così facendo hanno posto severi limiti all’espressione della propria personalità musicale, al punto che dovendo scegliere tra l’originale e la (bella) copia si finisce inevitabilmente con il rimettere sul piatto Nevermind. Voglio credere che la musica di Come Clean non sia nata a tavolino ma rappresenti veramente lo spirito dei quattro musicisti: all’atto pratico però un processo alle intenzioni ha ben poco da dimostrare. A far valere le proprie ragioni sono sempre e solo le note; e queste, come detto, risultano fin troppo aderenti all’illustre modello…
In merito alla mia recensione dei Nickelback ho ricevuto un paio di mesi fa una garbata protesta, tesa a contestare l’eccessiva severità con cui giudicavo Chad Kroeger e soci. Nonostante questo, a distanza di un anno non mi sento di cambiare granché del mio giudizio originario: continuo a ritenere Silver Side Up un album piuttosto convenzionale, non brutto ma privo di guizzi capaci di sollevarlo dalla media. Un prodotto ben confezionato e di sicura presa commerciale, grazie anche ad un singolo azzeccatissimo come How You Remind Me, ma poco altro. Questa, lo ripeto, non è una stroncatura in tutto e per tutto; però di band come i Nickelback credo se ne possano trovare a decine, tutte in attesa della canzone giusta che le liberi dall’anonimato e spalanchi loro la porta del successo.
Nel marzo del 2001 recensivo invece Bad Sneakers and a Piña Colada, il disco d’esordio degli Hardcore Superstar. Trattasi di un album che all’epoca aveva diviso la critica fra coloro i quali vedevano le premesse di un bel ritorno alle origini del movimento rock, scandinavo perlomeno, e quanti invece lo ritenevano un’edulcorazione delle sonorità da cui quello stesso movimento aveva inizialmente preso le mosse. Io mi ero associato ai primi, e ribadisco a distanza di tempo la mia posizione. Il secondo album degli svedesi, sopravvenuto nel frattempo, ha testimoniato che le raffinatezze in sede di produzione e le derive ancor più smaccatamente melodiche erano ancora di là da venire: Bad Sneakers and a Piña Colada è un lavoro schietto e diretto, che si avvale di un discreto gusto per i giri catchy e si lascia ascoltare con piacere una volta ogni tanto. Non mi pare il caso di definirlo ruffiano solo perché capace di far dimenare allegramente l’ascoltatore: liquidarlo in tal modo sarebbe sintomo di preoccupante puzza sotto il naso ed inspiegabile intransigenza, sullo stile de "se fanno successo non li voglio nemmeno sentire"…
La mano del tempo
Fabrizio Claudio Marcon