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Antica madre – Grazia Maria Poddighe

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Delfino editore, 2009
 
Accanto al critico che ne valuta lo spessore letterario, questo libro andrebbe affidato per la disamina anche ad uno psicologo che almeno ci spieghi come possano coagularsi all’interno dei nuclei familiari tali forze centripete e distruttive, nei rapporti affettivi reciproci, da segnare a fuoco una vita o anche tutte le vite.
Nella relazione genitore-figlio sembra che la malattia s’instauri più frequentemente lungo la linea padre-figlio o madre-figlia.  Quest’ultimo è il nostro caso, affrontato dall’autrice in una lunga lettera alla propria mamma, uno scritto nel quale alla ricostruzione del passato si mescola l’accusa, il rimpianto, il dolore: sentimenti al negativo della devastazione.
La Madre, archetipo della fecondità, della nascita e del rinnovamento, secondo i cicli del mito e della luna, diventa qui madre, creatura oramai rovinata dal tempo, tuttora inconsapevole del ruolo funesto avuto nello sviluppo della figlia, dal suo affacciarsi alla vita alla sua educazione sentimentale. Di qui il titolo a lettere minuscole, sarcastico nell’aggettivazione antica che qui indica solo vecchia, consacrante nelle pagine interne la brama di affetto dell’autrice, che di fronte ha solo il vuoto, oggi come allora.
La veemenza con cui procede il tratto letterario e psicologico richiamano altre implacabili atti di accusa verso il genitore, come la lettera di Kafka a suo padre, ambedue spietate e lucidissime, atte a prendere il lettore alla gola, generando persino angoscia quando il disagio appare molto simile al proprio.
Sorprende constatare ancora una volta come l’atto di recidere il legame con la madre e permettersi  di essere autonoma  sia difficile. Sembra che ciascuno di noi si muova nel mondo in funzione della propria genitrice o contro di lei, se sono prevalse rivalità, gelosie, incomprensioni e tratti anaffettivi nella personalità di chi dovrebbe armonizzare con l’esterno il nostro io profondo.
Per i maschi il problema, specularmente, si sposta sul padre.
Di frequente, si instaura poi un legame caratteristico con l’altro genitore, al quale, senza scomodare Freud, si è vincolati di solito in una relazione di maggiore confidenza e soprattutto di più generosa accoglienza degli errori. Anche questo mi sembra evidente nel libro della Poddighe.
Talora, col passare degli anni, la vita rende indulgenti. Permette di calare la Madre dal piedestallo  sul quale l’hanno posta le attese infantili  e adolescenziali, per collocarla tra gli umani, vittime a loro volta di paure, di traumi, di insufficienze.
Qui non accade. Il buco scavato nell’animo dell’autrice non è colmabile.
Il dettaglio della vicenda è duro e perseguito con ostinazione, senza l’ironia e la leggerezza di altri scandagli interiori di maniera sveviana. Qui lo scritto gronda di sangue.
Rilevante, in tal senso, la capacità stilistica dell’autrice di tenere tutto il testo sempre al medesimo livello di tensione: stile plastico e turgido, in un accavallarsi di continue svolte e sfumature emozionali.
Anzi, una forma così naturale eppure così satura di cultura, sempre appropriata alla tensione del racconto, costituisce l’aspetto peculiare del libro, per la duttilità che giunge fino al lirismo o, come in un crescendo, all’urlo e alla ribellione.
Stile, allora, molto diverso dalla sciatta posa in opera di un lessico scarno, tanto usuale in certa letteratura contemporanea, che da tempo chiamo scrittura computerizzata. Forse dipende dall’essere l’autrice anche poeta,  abituata a sovrintendere non solo sul singolo periodo quanto sul singolo lemma.
L’autoanalisi,  avviata e compiuta nel testo, convive con la capacità di comprendere le motivazioni che hanno spinto le azioni degli altri ed è singolare il livello dello svelamento. Non deve essere stato facile per l’autrice denudarsi, atto non meno imbarazzante del farlo fisicamente, e quindi è probabile che questo libro abbia lunghi anni di riflessione alle spalle. E se costituisse un gesto di automedicazione o di guarigione, l’autrice purtroppo conserva intatta la sua disperazione.
Nel repertorio dell’amarezza, su tutti gli altri s’impone più di frequente proprio questa voce.
Se poi questo libro fosse nato come un tentativo, nella maturità della Poddighe con la madre ancora vivente, di rimettere le cose a posto, anch’esso è andato deluso.
Appartiene all’essere umano tornare nelle pieghe del proprio tempo trascorso, per cercare di sistemarne le punte più aguzze una volta per tutte, quasi sempre incorrendo nelle solite frustrazioni. È quello che accade al tentativo della Poddighe.
In questa disamina, mi rendo conto di mescolare all’appunto letterario quello sulla vicenda privata dell’autrice, quasi che fosse scritto in sottotitolo che si tratta di una confessione. In realtà questo asserto non è affatto palesato, ma ugualmente dalle pagine sguscia una verità prepotente, ma se il lavoro fosse frutto della fantasia anche solo in parte, ciò non renderebbe questo libro meno avvincente.
Sullo sfondo delle vicende familiari si muove un paesaggio sardo di  miniera, duro e condiviso, anche da chi occupa più alti scanni sociali.
Potremmo a questo punto richiamare anche l’ausilio di un sociologo, affinché ci illustri i cambiamenti intervenuti dal dopoguerra in Italia, una trasformazione che in pochi decenni ha tanto cambiato -in senso economico con un benessere maggiormente diffuso e diversi comportamenti collettivi- anche la comunità sarda, qualche volta in ritardo perché estraniata dal mare dal resto dell’Italia.
L’isola, in ogni modo, ne viene fuori nel suo taglio rude e pastorale,  ma affascinante nelle distese solitarie, arredate da un unico stagno, dove si possono immaginare colori e profumi carichi.
Allo stesso modo sorprende quanto fossero semplici e senza frastuono le abitudini giovanili, legate alla scuola, ad un ballo, a un giradischi.
Da allora sembra essersi capovolto il cielo, ma, se la veduta cambia, a dirla con Machiavelli, l’uomo resta uguale a se stesso.
Le patologie che solcano le famiglie, che sfociano talora in aberrazioni e violenza fisica, oggi più note attraverso i mass-media a causa di una maggiore consapevolezza dell’abuso, continuano.
Questo tipo di violenza non appartiene, per carità, al libro della Poddighe, ma ci serve per confermare che i nuclei familiari sono spesso prigioni senza luce.

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