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La Guerra di Mario

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Mario è un bambino di nove anni. Ed è anche il punto di contatto tra tutti i vari ambienti che gli gravitano intorno. Quello della madre adottiva Giulia, docente universitaria e benestante, che rappresenta la borghesia progressista e aperta. Quello della madre naturale (una prostituta, presumibilmente) sfatto e mediocre ma allo stesso tempo carico di una vitalità autentica e fragorosa. Poi l’ambiente (inteso come territorio) nel quale la madre naturale vive, ovvero una periferia squallida e degradata, dove i bambini giocano tra strade polverose, discariche e palazzoni. E infine l’ambiente istituzionale rappresentato dalla scuola (l’istruzione) e da coloro che lavorano per gli affidamenti dei bambini.

Mario si ritrova sballottato di continuo da un ambiente all’altro. E naturalmente trova molto difficile adeguarsi a quelle che sono le istituzioni e le loro regole (che siano quelle famigliari o quelle scolastiche) proprio perché dentro di lui è la spinta vitale dell’ambiente in cui è cresciuto (quello popolare delle periferie) ad avere il sopravvento.

In alcuni momenti Mario ricorda (primi piani molto intensi, si passa dal colore al bianco e nero) quello che ha fatto per la Camorra e soprattutto quello che la Camorra ha fatto per lui.

Segni di una violenza psicologica e fisica che rimangono impressi nella mente e sul corpo e soprattutto nei comportamenti del bambino. Segni che nessuno riesce a leggere ed interpretare in maniera corretta se non Angela che sceglie come chiave di lettura quella di un amore unico e assoluto. Un amore che è anche bisogno incondizionato di poter amare al di là di ogni razionalità, rimettendo in discussione la proprie certezze e i propri ideali.

Angela infatti è l’unica che cerca di capire e assecondare tutto quello che il bambino fa o dice, nella disperata ricerca di un dialogo che sembra molto difficile da trovare. Un dialogo continuamente interrotto da tutta la tecnologia che sommerge i bambini (cellulari, videogame) e che trova l’origine della sua stessa impossibilità nel divario quasi incolmabile dei due mondi ai quali Angela e Mario appartengono. L’unico con cui Mario parla liberamente è il suo cane, Mimmo, proprio perché in questo caso è il bambino a dettare le regole del gioco e della comunicazione.

Il tentativo di Angela diventa quindi quello di inglobare il mondo di Mario dentro al suo, ma il dramma è che il mondo di Mario e quello che esso rappresenta non vogliono essere inglobati.. Questo mondo vuole mantenere la propria autonomia e le proprie regole. Che sia quello popolare delle periferie o quello violento della Camorra (i confini tra i due sono difficilmente tracciabili) non ha importanza, ci troviamo di fronte ad una dimensione impossibile da capire se non ci si è cresciuti o se non ci si è vissuto all’interno.

Antonio Capuano cerca quindi di inserire il suo punto di vista proprio in favore di questa dimensione che stiamo cercando di delineare, senza dare giudizi e allo stesso tempo (attraverso la figura di Giulia) ponendosi quei dubbi necessari per chi dall’esterno vorrebbe entrare in questo mondo per cercare di aiutare le persone che ne sono rimaste intrappolate.

Angela amando Mario mette veramente tutto in discussione. I rapporti con il suo uomo, che mostrano la difficoltà odierna nel creare una famiglia (ma ne abbiamo ancora bisogno?), i rapporti con le istituzioni, quelli con la madre (la incolpa di non averle tramandato il segreto della maternità) e sopratutto il rapporto con una società che fa finta di niente, che cerca di nascondere i problemi invece di mostrarli e risolverli.

Angela compie il proprio percorso (il suo rapporto con Mario) anche come una riscoperta di se stessa. Notevole è l’intuizione cromatica di Capuano nel far scivolare proprio quei colori che Angela spiega con tanta passione (è una docente di storia dell’arte) dai quadri alla sua persona. Il rossetto sulle labbra e i vestiti colorati (il rosso) regalano una nuova bellezza ad Angela. Una bellezza tenuta troppo a lungo nascosta e che lo stesso Mario contribuirà a far di nuovo fiorire.

Il film quindi ha il coraggio di toccare temi scottanti e molto attuali senza però nessuna traccia di pietismo o retorica. Commoventi alcuni momenti poetici (Mario che suona il pianoforte mentre i vigili aspettano lui e Angela sotto casa, momento in cui l’arte nasce e muore improvvisamente), agghiaccianti i ricordi del bambino.

Non sono in grado di immedesimarmi in vite così distanti dalla mia, chiuso come sono nelle mie agiatezze piccolo borghesi e quindi non le posso giudicare. Posso solo cercare di comprenderle e di raccontarle agli altri. Perché in un panorama cine-televisivo che ancora spaccia Napoli per la città del sole, del mare e della canzone è necessario lo sguardo di qualcuno (in questo caso Antonio Capuano) che mostri la città per quello che realmente è. Che mostri il coraggio di alcuni e l’indifferenza di molti. Che faccia vedere tutto quello che è sicuramente più facile nascondere che denunciare.

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