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Sette anni in Tibet

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Sette anni in Tibet

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USA 1997

Regia:        Jean-Jacques Annau
Interpreti:    Brad Pitt, B. D. Wong,
Jamyang Jamtsho Wangchuk
Sceneggiatura:    Becky Johnston
Fotografia:    Robert Fraisse
Produzione:    Jean-Jacques Annau, John H. Williams,
Ian Smith
Durata:        2h e 19′
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Basato anche questo film su una vicenda veramente accaduta, nasce dall’incontro della cultura europea materialistica e fisica degli anni precedenti alla II guerra mondiale e quella tibetana completamente devota alla meditazione e allo spiritualismo. La scelta della sceneggiatura operata da Jean-Jacques Annau si basa sulla vera storia di Henrich Harrer portata a conoscenza del pubblico occidentale attraverso il suo libro pubblicato nel 1953.
La pellicola vale la pena di essere visionata non tanto per la presenza accattivante di Brad Pitt, “specchietto per le allodole” per cultori e cultrici delle grandi star hollywoodiane, quanto per la fotografia, i meravigliosi e particolari paesaggi e soprattutto per i contenuti etici su cui riflettere.
L’incontro/contrasto tra i due mondi nettamente agli antipodi propone da una parte un uomo, un vincente, cresciuto nel culto dell’esaltazione della forza fisica e delle conquiste continue qual’era l’idea diffusa da Hitler. Harrer, interpretato da Bitt, assomiglia molto all’uomo nietzschano che parte per l’ennesima annunciata vittoria sulla natura: scalare il monte Nanga Parbat in
India lasciandosi alle spalle i problemi personali e l’Austri nazista.
Per una serie di vicende, che non racconto volontariamente, si ritrova insieme ad un amico (Peter Auschaiter interpretato da David Thewlis) a percorrere le terre dell’Himalaya fino ad arrivare ad incontrare il
Dalai lama. Conosce un nuovo mondo, incontra l’altra parte di mondo: un uomo mite, convinto nell’idea della pace, del perdono, della sapienza profonda, del rispetto per ogni forma vivente incarnata in un bambino. Impensabile nella cultura dell’epoca e anche nostra, che i bambini possano essere custodi di tale sapienza.
Inizia quindi lo scambio vicendevole fra i due, che cambierà profondamente l’animo dell’uomo e farà conoscere altre cose al piccolo. Un mondo, quello tibetano, costruito sulle profondità delle nostre anime, sulla poesia dei paesaggi, sul suono cupo dei lunghi corni, sull’adorazione dell’incarnazione della loro guida spirituale.
Tuttavia il corso della storia travolge il Tibet che viene invaso e occupato dalle milizie di Mao, costringendo il Dalai Lama all’esilio e uccidendo dal 1959 più di un milione di tibetani.
Sviluppato sulla sceneggiatura di Becky Johston, Jean-Jacques Annau ha fatto un eccellente lavoro: ottime riprese, paesaggi indimenticabili, avvalendosi di attori di un certo calibro. Va anche detto che la donna che interpreta la madre non è che la sorella del monaco tibetano.
Anche questo regista ha puntato sull’accuratezza di particolari e di dettagli e attraverso questo film è stato un modo per mettere a nostra conoscenza e denunciare la situazione attuale di questo paese.

Beatrice Di Venosa

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