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Mary aveva un anellino

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Mary aveva un anellino

Sono tornata a Montecarlo solo ora. Sono passati ormai quasi cinque anni dalla prima e unica volta, da quel fine settimana passato in un albergo da due soldi, in un ottobre ancora caldo e luminoso che aveva incendiato il tramonto sul porto di colori vivi e unici.
Non so perché l’ho fatto.
Non per il Casinò. Non per il mare. Non, sicuramente, per la cucina francese.
Stavolta sono arrivata in treno. Sola. Senza bagagli.
Uscita dalla “garre” ho sceso quei pochi ripidi scalini che mi hanno riportato su rue de la turbie, e, lo ammetto, mi sono soffermata due secondi a rimirare il terrazzino della nostra camera, ancora lì, in quel ferro battuto scuro e senza fronzoli. La parete dell’albergo deve essere stata ridipinta di nuovo. Me la ricordavo gialla. O forse panna. Non so.
Ho fatto qualcosa che allora non feci: ho preso un trancio di pizza in un negozietto lì in angolo. Il mio francese, molto più sicuro di allora, anche se ancora un po’ impastato ed impreciso, ha fatto sorridere la donna al bancone. I suoi occhi leggevano forse in me una scontata nazionalità italiana, rendendomi cugina lontana di quel loro mondo così presente e perfetto.
Il ragazzetto alle sue spalle si è inclinato sulla sedia un poco, per vedermi meglio in viso. Gli ho sorriso. E lui, sprovvisto di quella naturale timidezza che si aspetta di trovare in un giovane della sua età, agita la mano, e mi sorride un “comment ca va?” corposo, pieno di fragranza e buon umore, come un vino rosso toscano.
La gente qua non è cambiata. Pochi, ricchi, signori. Pochi giovani in giro, dirottati su luoghi vicini con più attrattive. Molti avventurieri. Molte anime perse. Molti redenti.
Ed io? Io in quale categoria rientravo? Chissà.
Sorrido anch’io. Rispondo al ragazzino che intanto si è avvicinato al bancone, accarezzato mestamente dalla madre, finisco la pizza, e mi allontano.
Volevo seguire rue Grimaldi fino a Place Devote, ma non è ancora, forse, il momento. Meglio il porto prima. Meglio il mare, le barche, i fari. Attraverso piazza d’armi, fermandomi solo un istante di fianco alla fontana. Sì, la luce è quasi quella di allora, anche se adesso è marzo. L’edicola è sempre lì. Solo più colorata fuori, solo più piena di cd-rom e di videocassette. La scitta Nice matin (il mattino di
Nizza, e non il buon mattino, come avevo mal tradotto io la prima volta) sovrasta la baracchina dei giornali ancora di più. Ma è uguale ad allora.
C’è ancora il bar dove abbiamo fatto colazione la domenica. E anche il cameriere, stempiato, francese fino al midollo, è lo stesso di quel giorno. Lo osservo un po’, sperando che come per magia riecheggi la risata di Liana, e quel sorriso semplice di Cesare. Ma Liana, che si sfilava, documentata da una telecamera che ancora ho, la calza rotta da sotto i jeans, è, al momento, fermamente altrove. Fermamente assente. Fermamente lontana da qui, da me, da questo posto e dai suoi pochi e umili ricordi. Niente d’importante qui, nel mio passato.
Niente di serio. O forse no?
Scendo altri scalini, e poi seguo il boulevard fino al mare. L’insegna di qualche ristorante è cambiata, il numero di cani in giro no.
Ritrovo anche un cane “pecora” che annusa beato l’aria salmastra facendo da spola tra lampione e lampione. Dietro, il suo attempato padrone, con il giornale in mano, e un sigaro in bocca. Calmo.
Rilassato. Come se la vita per lui non fosse altro che una passeggiata sul lungomare.
Alla cabina telefonica mi fermo ancora. Ho il cellulare nella borsa, ma questo è un invito più esplicito a chiamare casa. Sentire la sua voce. Salutarlo.
Una giovane coppia è seduta ad un tavolo del fast-food. Mano nella mano, occhi negli occhi. Lei bionda, capelli lunghi, magra. Lui ancora più esile, con uno sguardo da bambino e due occhioni scuri come una notte in mezzo ai boschi. “Cherie” dice ogni tanto lui mentre sorseggia una coca. Lei lo guarda ferma. Forse non così spledidamente persa come lui, ma sicuramente felice.
No, penso, telefonerò dopo. Magari da Nizza, o da Marsiglia. O da dove sarò.
Attraverso la strada, e mi ritrovo come per magia a due passi da spledide e costose barche di ogni tipo. Qui, in una lingua strappata alla terra non più grande dello Zocalo di città del messico, riposano tranquille centinaia di piccole e medie imbarcazioni, protette dal mare da qualche metro di cemento e da due fari semplici semplici.
Non c’è in essi la poesia nè l’eroica maestosità di quei fari che si ergono più a Nord. Non c’è il coraggio solitario di chi sfida l’ignoto e, come una guardia al confine, sembra attendere un’invasione con rassegnato distacco.
Qui è tutto dorato, e quelle due torrette ricordano solo uscieri in livrea, messi alla porta di un salone preparato a festa.

Che strani pensieri che faccio.
Ultimamente qualcosa mi è salito dentro. Qualcosa che non conoscevo. O che non volevo conoscere.
Ho un cassetto pieno di poesie adesso. Mie.
E alcune, secondo me, non sono male. Alcune sono tristi, malinconiche.
Chiedono alla sera cosa verrà nel giorno nuovo. Accarezzano le cime degli alberi di foreste vaste ed inesistenti per sentire il suono ovale del flauto di Pan.
Ma molte sono allegre. Piene di gioia di vivere. Piene di dolcezza per le giornate andate bene. Piene di luce che rischiara la notte.
Solo. Solo chissà. Da quando questa cosa mi si è aperta nell’anima, non mi sento più come prima.
I ricordi, i ricordi tutti salgono in me senza sosta e mi
“costringono” a rivivere episodi del mio passato che avevo dimenticato. Un esercito di voci bussa sempre alla mia porta. Mi basta un attimo. Basta fermarmi un solo istante a guardare il cielo, ed ecco che appare qualcuno, incontrato anche due o tre anni fa, e come in una rappresentazione teatrale inizia il suo monologo con un enfasi nuova.
Ed io rispondo. Ed io rivivo ciò che allora avevo solo vissuto.
Ora sono qua. E so perché.
Lascio il porto, e mi dirigo al bar in angolo tra rue Grimaldi e boulevard Albert. Mi siedo allo stesso tavolo di allora. Il cameriere mi assedia subito con un “Bonjour mademoiselle” ed io gli rispondo in francese, sfilando una sigaretta dalla borsa.
Un bicchiere di vino bianco. Come allora. Olive in un vassoio piccolo piccolo. Esattamente come allora.
E’ solo troppo presto. Il sole è ancora lontano dal tuffarsi dietro ai monti e mi manca qualche posto che ho ignorato. Ma non penso che sia importante. Cambio sedia prendendo il posto che Cesare ha nei miei ricordi, in modo da vedere di nuovo il mare. E poi, sorseggiando lentamente quel liquido leggermente aspro, attendo che tutto salga ancora.
Quando il cielo comincia ad imbrunire mi alzo e pago. Di bicchieri ne ho bevuti tre o quattro, e non uno solo. La testa mi gira un po’, ma sono calma. Le voci dei compagni di quel viaggio mi hanno tenuto compagnia. Liana, che allora era stata quasi sempre in silenzio, adesso, mischiando ricordi di momenti diversi, ha parlato a lungo di sé, della sua vita. Dei suoi desideri. Delle sue paure. E Cesare, beh, ha parlato di noi due, e ha ripetuto frasi prese da canzoni e libri.
Ho sentito ancora “Rispetto” di Zucchero uscire distorta e a basso volume dallo stereo del bar. Solo l’altro non ha detto nulla. Come uno spettro al mattino è rimasto lì, a guardare il cielo, tranquillo e sereno. Lo ricordavo diverso, fisicamente intendo. Sembra più francese. E non so se sia meglio o peggio.

Quando riprendo rue Grimaldi, il cielo si fa scuro. La notte sembra essersi rovesciata sopra a tutto come una colata di cemento. Ma presto le stelle e la luna ridanno il giusto tono al cielo, e l’atmosfera, da cupa come mi era apparsa in un primo momento, ritorna un po’ magica, un po’ estiva. Mi guardo intorno, e riconosco ogni singolo angolo.
Attendo ancora un po’. Mi accendo una ennesima Malboro light, e comincio a camminare nella direzione giusta.

E appare lui di fianco a me. Rivedo il suo viso grassoccio e pallido, i suoi capelli spettinati da un vento quasi solo interiore, e quei suoi occhi strani, scavati e cupi. Rivedo il suo incedere rigido in quel completo così inconsueto per lui. Ed io continuo a chiedergli cosa pensa. Cosa voleva dire.
E lui non mi guarda mai in viso quando parla, e sembra quasi di sentire il rumore dei catenacci dentro la sua gola che saltano uno dopo l’altro. Le parole non escono ancora, ma sono sempre più vicine.
Perché non parla? Forse non sa che ho bisogno di qualche parola amica?
Di qualche conferma, di un consiglio su come procedere con Cesare, anche se ormai già tutto è deciso?
Poi, all’improvviso, sento l’ultimo portone aprirsi. Sento il fiotto caldo delle sue parole saettare tra l’aria tiepida della sera. Ma non sono le parole giuste. Non è quello che mi aspettavo di udire e mi sento come chi si rovescia una pentola di acqua fredda addosso, dopo aver faticato per mezz’ora ad inclinarla.
Non ha capito.
Io non avevo capito.
Ed ecco che un’altra persona se ne va. Ed ecco un altro che si è perso lungo la via del cielo.
Peccato.

Il sogno è finito. La strada ritorna popolata da calmi francesi, e da qualche turista giapponese con un immenso zaino nero sulle spalle. La sigaretta è ormai bruciata fino al filtro, e la getto a terra. La guardo un attimo cercando di capire qualcosa di più. Ma non c’è nulla da capire.
La schiaccio con la scarpa, e mi incammino, ormai libera, verso il
Casinò.

Marco Giorgini

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