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New Orleans

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New Orleans

L’uomo nero tirò fuori il sax. Il cappello era calato sulla fronte e gli occhiali spessi e scuri lo riparavano dagli ultimi, obliqui, raggi di sole della giornata. Non si guardò intorno, non fece caso ai turisti che rallentavano quando gli passavano vicino, incuriositi, e, con tutta la calma del mondo, iniziò a ritagliare dalla memoria note e immagini piene di calore.
Il Mississippi dietro di lui si increspava appena al passaggio della
Creole Queen, con il suo carico di festosi e colorati avventurieri, e in qualche modo lo sorreggeva, portando su di sé quel suo motivo grezzo, e un po’ della sua lunga ombra scura, che si agitava appena tra il gazebo e la banchina.
Al suo pianto blues, al suo straziante racconto senza parole, si univano piano piano altri, distanti. Un po’ di jazz, qualche marcetta conosciuta, qualche motivo da pubblicità. Ma soprattutto tanti liberi giochi di note, che si intrecciavano, iniziavano un percorso, lo interrompevano, cambiavano strada e poi ritornavano con più vigore dove erano partiti.
Dopo qualche minuto cominciavo anch’io a capire la complessa melodia, apparentemente buttata lì per caso, che costruiva lo splendido regalo di quest’uomo alla sera di New Orleans. Cominciavo anch’io a capire come tutto fosse collegato, come anche l’altro con l’armonica sulla terrazza, vicino al cannone, ogni tanto si lasciasse coinvolgere dal sax e ne seguisse il tema, graffiandolo, stuprandolo, ma facendolo così anche un po’ suo.
In qualche oscuro modo anch’io contribuivo al quadro e, con la mia malinconia, facevo da coro silenzioso, appoggiato al muretto, immobile sotto il sole ormai mite, con una sporta piena di souvenir in mano, il cappellino ben calato in testa, e un’espressione calma e triste insieme.
Pensavo al fiume. Pensavo a quanti già ne avessi visti, e a quanto, con i lampioni accessi, e la luna che cominciava pallidamente ad apparire in quel cielo ancora chiaro, questo spettacolo non mancasse mai di colpirmi. Pensavo ad altre città, altre capitali, e poi tornavo con gli occhi e con la mente su quell’uomo, incantato dal suo distaccato modo di suonare, dalla sua, indiscutibile, Arte.
Trecento metri più in là, dietro di me, la festosa folla di Bourbon street ballava tra un locale e l’altro ad altri ritmi. E anch’io, pensavo, tra poco li avrei raggiunti. Ma prima volevo crogiolarmi ancora un poco. Volevo che tra le nubi scure che rendevano minaccioso il cielo quella sera, un volto noto mi apparisse. Volevo sentire la sua mancanza, rendere concreto il bisogno che avevo di vederla, parlarle, sentirla.
E scivolai così quasi senza accorgermene verso rue Decatur, ignorando la vecchia al carretto degli hot-dog, e gli altri cento venditori da strada, con il loro carico di magliette, cibo e musica. Ed entrai nel pacato pub di sempre, piacevolmente salutato dal fresco dell’aria condizionata e dal sorriso della giovanissima bionda al bancone, poco più che bambina, e ancora avvolta in quel rossore dolce e adolescente.
Era strano forse essere lì. Strano sentire che la musica del gruppo che suonava non era più quella di prima, e che il pavimento in legno scuro, ricoperto di trucioli e pezzi di noccioline, non faceva più pensare alla città in cui ero. Né ricordavano l’anima nera del jazz e del blues, le pareti con i bersagli per le freccette, o le foto color seppia dietro al bancone. Ma sentivo che in qualche modo lì ero più a mio agio e che il mondo fuori e quello dentro non erano per me se non un giusto cammino da percorrere per arrivare dove sentivo di volere approdare.
“Camminavo” dunque ancora, seduto al bancone, con i gomiti distanti e rilassati, senza più muovermi. Ripercorrevo a ritroso (“a rimbaud”, pensavo, sorridendo al mio boccale) le strade del quartiere francese; ricatturavo ogni angolo che avevo visto, ogni viso che aveva incrociato con il mio un rapido saluto, sentendo ancora dentro me il rumore disordinato della piazza e le voci brillanti dei vetturini che offrivano ai loro ospiti ricchi minestroni di storia e di voodoo.
Risalivo Ursulines street fino alla Rampart, e da lì, giungevo all’albergo. Dall’albergo tornavo sulla I-55, fino a Jackson. Poi ancora fino a Memphis. E ancora indietro, risalendo su trolley, taxi, macchine, aerei, ancora indietro. Fino a lei.
Fino a lei, distante dieci, dodicimila chilometri, ma nella mia mente vicina più della bionda che ogni tanto mi sorrideva distratta, in attesa di altre ordinazioni.

E prendo un pezzo di carta ed una biro dal mio portadocumenti, e scrivo. Qualche rima, qualche verso drogato dalla birra e dalla musica, intorpidito da un vuoto grande come il mondo, che mi si è aperto in petto, all’improvviso. Poi giro il foglio, e ancora versi, questa volta più concreti, più pensati.
Mi fermo, bevo ancora, e mi guardo intorno, cercando non so neanche cosa.
Sono qui, lontano da casa, per affogare quel senso di rigetto che nell’ultimo periodo mi aveva chiuso l’animo. E sì, l’aria differente, l’atmosfera di questi luoghi è servita per rendere più leggero ogni momento. Ma forse, dalle gabbie che noi stessi ci creiamo, non si esce scappando. Non basta mettere un oceano tra sé e la propria vita, per ritrovare se stessi, per ribaltare tutto, e sollevare il velo scuro dei pensieri. Qualche artiglio rimane in petto, e la distanza lo fa sprofondare ancora di più. Sono come un pesce all’amo, e tirare non fa che danno.
O forse, qualcosa di triste, in fondo al cuore, è necessario. Forse il mio è lo stesso spettro dell’uomo col sax. Forse il mio desiderio è qualcosa di comune. Di importante.
Riprendo il foglio con le strofe in mano, e non ho il coraggio di rileggere neppure una riga. Gli occhi non sono umidi, ma in gola qualcosa c’è che mi fa sospirare. Ricambio il sorriso della cameriera, e giù, ancora parole sopra al foglio ormai pieno, ancora parole che mi riportano altrove, e mi legano nello stesso tempo a questo luogo.
Sto pensando a lei? O è il fiume che come un serpente si insinua in quest’immensa città a suggerire parole tristi, e dolci? Catturo dall’aria che respiro ciò che scrivo, o già è in me?
La birra è ormai finita, e sono quasi le otto. Andrea mi aspetta più avanti per andare a cena. Ma un ultimo giro di valzer muove la mia mano sul foglio. Le parole sono pietre sopra ad un sentiero di montagna, e non c’è sempre ritmo, in loro, non c’è sempre quella magia che vorrei vedere infusa. Graffi di gesso sopra una lavagna, ecco cosa mi sembrano ora. Troppo è ciò che voglio mettere su carta. Troppo rispetto a quanto sia in grado, travolto da tutto questo posto, di tracciare. Un senso di impotenza, di inutilità si aggiunge quindi al gusto amaro dell’ultimo sorso di Guinness rendendo quel bagno scuro di ricordi ancora più importante, ancora più intenso.
Mi starà pensando? mi chiedo senza convinzione. Chissà che cielo guarda ora, chissà con chi è. Chissà.
Esco lentamente alla luce dell’ultimo sole, frastornato, un po’ confuso, con un foglio pieno di inutili emozioni stretto in pugno, e la ricevuta della birra nell’altra mano. Le pozzanghere scure riflettevono i tetti dei palazzi ai lati della strada, e qualche coppia, già ubriaca a quest’ora, danza tra le sponde di quei piccoli laghi, increspandone le immagini e disegnando sulle pietre asciutte improbabili aiku.
Due giovani motociclisti mi si avvicinano e mi chiedono qualcosa che non comprendo. Sorridono, e quello biondo con la barba, accenna a vampiri e a riti estivi. Sorrido anch’io un po’ preoccupato. Lo sguardo della coppia è perso in altri mondi, e il loro accento macina i già esigui rimasugli di un inglese appena comprensibile.
“Sono italiano” dico, quasi vergognandomene. “I don’t understand…”
Lo sguardo del biondo sembra ritornare per un attimo, qui, a New
Orleans, poi passa al cielo. Un sorriso ancor più ampio gli rischiara il volto, e mi sembra di vedere un paio di canini appena più pronunciati del normale.
“So you probably don’t know what fucking we’re talking about…” sbotta lui, gioviale, guardando il compagno più composto e silenzioso.
“We LOVE you, man! Bye.” conclude mettendomi una mano sulla spalla.
Abbozzo un “bye” biascicato anch’io e mi allontano dai due. C’è qualcosa che non mi è piaciuto, ma è andata… anche questa è andata, penso.

Presi la strada più veloce per Bourbon street, e mi tuffai tra la gente, ammiccando alle spogliarelliste in mostra come fiori in vetrina, e tenendo il ritmo ai tanti sprazzi blues che dai locali era facile apprezzare. Mi infilai tra gruppi di tedeschi rossi in volto e schiamazzanti, e al centro del mondo mi fermai. La folla mi passava ai lati, scartandomi senza notarmi, come se fossi un lampione o un sasso incastrato nel terreno. Ero lì. Vedevo. Ascoltavo. Annusavo.
Ero lì. Cento per cento America. Cento per cento musica. Cento per cento tutto.
Cento per cento?
C’era qualcosa che mancava perché quel limbo, quel carnevale di cartapesta fosse ciò che sembrava?
Due more, alte, con una maglietta universitaria mi sorrisero, passandomi di fianco. Un grasso signore con gli occhiali e con una telecamera in mano ruttò sonoramente al cielo, suscitando l’ilarità di moglie e amici.
Lontano la banda cominciava il suo cammino tra le strette strade di quel luogo, radunando neri e bianchi per un colorato serpente di persone.
Accartocciai il foglio con le poesie, quasi con stizza. Lo tenni in mano un po’ guardandolo come per sfidarlo a protestare, e mi incamminai verso uno dei rari cestini fuori da un bar.

Poi, sospirando, me lo misi in tasca. E, un po’ più stanco e vecchio, mi diressi dove Andrea mi avrebbe, poco dopo, raggiunto.

Marco Giorgini

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