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Le ombre della sera

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Le ombre della sera

Sciamavano le ombre lungo il muro del cortile, e cercavano insidiose di arrivare fino a lei attraverso i rami appena mossi dal giungere della sera.
Ma lei non c’era.
Il suo viso non rendeva fosco il vetro ondulato del corridoio del secondo piano, ed i suoi passi non scolpivano nella mia mente soldatini di piombo in marcia: la sirenetta era già volata tra le fiamme e, almeno nella mia immaginazione, la vedevo già sorridere distratta alle nubi chiare da un finestrino di un rapido
Bologna-Ancona, col capo reclinato sulla spalla, il fedele walkman che ai suoi miscelava pensieri d’altri, e uno sciabordante Fitzgerald, in qualche forma, tra le mani.
Era giugno, quasi estate; un po’ di più per chi come lei, travolta dagli strali della vita, veniva il venerdì come rapita da un fiume che scendeva al mare; un po’ di meno per chi, invece, come me al massimo ristagnava tra le foglie di un giardinetto, immaginando cigni ormai scomparsi e trasformando un sentiero mal coperto da ghiaia grossa in paesaggi di pineta, lungo i quali la salsedine riempiva il naso ed impregnava anima e vestiti soltanto nei ricordi.
Ed il sabato, dopo esser passato senza troppe illusioni sotto casa sua, mi dirigevo lento in via del Corso, annaspando in quell’aria trasandata che il centro sempre indossa quando i primi caldi scoprono le braccia e invitano al rito del gelato, e mi perdevo; camminavo senza pensare a nulla, calciando qua e là qualche sassetto che spuntava impertinente tra le crepe dei marciapiedi, e appiccicando il naso ad ogni vetrina di negozio, cercando delle cose soltanto il colore o la bizzarria di forme.

Vedevo i miei diciassette anni scivolare via inutili come me, da una via all’altra, dalla luce e dai colori di via Emilia, coi suoi negozi pieni di vestiti e di macchine fotografiche, alla più composta ed elegante penombra di via Farini; vedevo i miei giorni arrampicarsi su greppi troppo alti per poi scivolare tristemente a valle, riportando come medaglie solo ginocchia sbucciate e pantaloni impolverati; vedevo il vuoto baratro della mia vita non riempirsi con la fragile spinta delle mie piccole ambizioni, dei miei docili desideri e dei miei primi veri sentimenti.
Vedevo lei, forse non così lontana, ma ugualmente irraggiungibile, sfuggire alle mia attenzioni trasparenti, e frantumare il primo strato di quello che avrei giurato essere un cuore. I rumori diventavano angoscia, quando alla sera tutte le paure del mondo iniziavano a turbinarmi intorno, più delle foglie sotto la vecchia quercia dei giardini, e capivo che la linea della sua vita prendeva altre strade, sconosciute a me, distanti, incomprensibili. E allora uscivo di casa senza giacca, senza occhiali, spesso pure senza soldi, e camminavo e camminavo. Sperando forse di coprire così quell’abisso sterminato, ed in crescita, che fratturava il mio legarsi a lei; sperando così forse di fuggire, illuso, dalla gabbia senza sbarre di un’adolescenza acerba ed insipida che non riuscivo in nessun modo a colorare.
Adoravo, in quei momenti, il fresco umido dei portici. Adoravo, quando così tristemente risalivo gli scalini dei miei pensieri, sentire quel brivido leggero lungo la schiena; sentire l’odore di antico di polvere e muffa; sentire che per un istante solo il mondo cambiava intensità, e l’aria stessa sembrava più densa e vera, ed io, dunque, più vivo.
Spesso poi, mi fermavo davanti ad una chiesa ad ammirare le ombre basse rifugiarsi sopra le trame a mosaico del pavimento, e all’interno, uomini in nero muoversi indaffarati tra le candele accese e gli sgabelli di legno. Mi chiedevo cosa pensassero, cosa provassero loro, chiusi lì dentro e io libero fuori, mentre il loro volto sereno ed il loro incedere manifestava sicurezza quando il mio animo era pieno di paure e desolazione. Mi domandavo cosa sarebbe successo se fossi entrato, se, rinunziando al sole calante delle sette, avessi fatto un passo, e avessi con un piede solo invaso quel luogo così strano.
Ma poi non ne trovavo il coraggio: entrare in Chiesa senza che fosse domenica! Eresia.
Avrei sentito su di me l’intero esercito del campetto di calcio sgranare gli occhi ed iniziare a bisbigliare additandomi come uno straniero. Avrei sentito il mio essere distante diventare più concreto e la maschera che con tanta cura ero solito indossare iniziare a sollevarsi ai lati.
No. Rimanevo per un poco ad ammirare le immagini dietro l’altare, e poi continuavo il mio cammino per le vie del mondo, verso gli immensi spazi che solo un ragazzo (anche se triste) vede, per giungere di nuovo, quando il sole iniziava a tuffarsi tra le cime approssimate dei pioppi, in viale Reiter.

Rifacevo la strada al contrario, passando di nuovo davanti al tabaccaio dei fogli protocollo e delle bic blu e nere, davanti al bar delle otto meno dieci del mattino, pieno anche a quell’ora serale dell’odore palpabile dei gnocchini e dei caffè, davanti alla scuola.
La sera, quell’edificio austero, concepito da divinità a me distanti in un rigido avvicendarsi di linee senza grazia, assumeva un aspetto straordinario. Sì, forse, privato delle mille voci di ragazzi, privato degli sguardi schivi ed assonnati dei bidelli, e del segnare il passo dei professori, forse anche quello ricordava una chiesa. Un tempio, dedicato a qualche dio che viveva in naftalina, senza neppure avere l’orgoglio di un altare adorno di drappi dorati, e di immagini ricamate sui vetri; una divinità che sentivo spesso spiarmi dalle pagine sottolineate dei libri, e dai quaderni pieni di appunti fantascientifici di cui non sempre riuscivo ad apprezzare la saggezza.
Dalle vetrate del portone si intravedeva la scalinata principale, e la stanza dei bidelli; sulla destra, contro il muro, c’erano le bacheche piene di inutili avvisi, e di inviti per improbabili feste o seminari.
A stare immobili sembrava quasi di sentire le voci di tutti coloro che davanti a quei quadri, alla fine dell’anno, avevano sospirato, pianto o gioito. Ed i ricordi si sommavano sempre al presente, e dalle ombre informi ricavavo creta per la mia fantasia: vedevo il professore d’italiano scendere le scale austero, con i compiti sotto il braccio; vedevo i due tecnici di laboratorio, giovani e sfacciati, camminare con il caffè in mano; vedevo Giulio e Fabrizio raccontare di avventure in discoteca e di versioni di latino appena ricopiate; vedevo lei, chiacchierare con le amiche, indifferente al mio sorriso timido ed al mio sguardo vago ed impacciato.
E quando la sua ombra sembrava quasi sul punto di girarsi verso me, come per chiedere spiegazione per la sua presenza in quel luogo così poco gradito, il diciotto barrato frenava davanti alla fermata, ed interrompeva la sinfonia di immagini che stavo componendo senza possibilità di aggiungere battute o controtempi. Mi giravo verso la strada e lo guardavo con sfida, mentre i rami più bassi degli alberi ne accarezzavano il tetto e qualche anziano ben vestito domandava “va in stazione?” al conducente, ma era poco più che un rituale. Era ora di tornare a casa, e quella grande figura arancione, in fondo, era anch’essa parte di me, del mio vagare.

E allora mi facevo forza per staccarmi dalla scuola, e un po’ più rapidamente mi muovevo verso la dominante sagoma del Tempio dei
Caduti. Rallentavo solo un po’ in via Poletti, per guardare una volta in più la sua finestra, e un nodo mi saliva in gola. L’ultimo sole giocava coi riflessi sopra i vetri, e mi sembrava quasi di vedere una sagoma familiare. Si, forse è lei, pensavo con un fremito indomato. Mi sta guardando.
Alzavo furtivo una mano, accennando un inutile saluto, e lesto il capo a lato reclinavo, come vergognandomi di un gesto così vago. Restavo qualche istante in attesa di un segnale, di un aprirsi di quei vetri ormai da me tanto consumati, e del suo viso, splendido, affacciato sulla via.
Ma lei, sicuramente ormai in spiaggia con amiche e amici, non si accorgeva di me, e mi lasciava al vento opaco dei ricordi. Ed io, raccolto di quel quadro splendido di strada, con alberi, case, negozietti sempre vuoti, lenti ciclisti con cani ansimanti, bambini e macchine parcheggiate, l’essenza estrema, l’ultima tremenda pennellata, continuavo a sospirare verso la mia cena.
Sarebbe venuto un giorno differente? Sarebbe comparso, tra le nubi splendide di giugno, un sorriso anche per me, un dolce abbraccio di parole affettuose, che una sera mi avrebbe fatto compagnia?
Non lo pensavo. I miei diciassette anni, ruvidi come iuta, remavano in acque solitarie, e lontano era l’attracco. Se avessi avuto lei non avrei saputo come procedere, come includere il suo mondo nel mio polveroso sgabuzzino, in cui sapevo stare germogliando sì qualcosa, ma non un fiore come il suo, non una fragile e soffice scultura di petali e profumo.
Forse, meglio, un salice, pensavo, forse un acacia. Ma a diciassette anni tutto sembra così strano, da mescolare donne fiori e piante, senza ottenere nulla, senza aprire il cuore veramente, né tenerlo chiuso.
A fissare un vetro cosa avevo dunque? Un senso vago di dolore, un gemito d’angoscia che mi scuoteva stomaco e polmoni, facendomi annaspare ed affogare in un piccolo acquitrino in cui, forse, mi sentivo rospo e principe allo stesso tempo; e desideravo una dama che mi aiutasse ad alzarmi da quel minuto di vita in cui dormivo, aprendomi gli occhi e liberandomi la voce.
Forse, sì, quello volevo, quello cercavo nei suoi occhi, nelle sue forme che ogni tanto m’accorgevo di sognare: un mezzo per fuggire dal presente, un modo per sentirmi anch’io completo, adulto, vivente e vissuto.

Ogni tanto questo lo pensavo così intensamente da crederci quasi, da riflettere veramente su di lei con obiettività, con spirito critico e cinico, con il desiderio reale di rinchiudere il mondo intero in una griglia e una volta intuito d’ogni segreto il vero volto, di riuscire a controllarlo.
Ma era estate, e estate a diciassette anni è sempre, come è sempre autunno primavera e inverno. Ed io, piccolo, timido, con un viso stanco, deluso, andavo e venivo per le stesse vie sempre: salutavo il cielo e le foglie come compagni di sventure e sommavo a loro tutti i personaggi dei libri che leggevo, e quelli della televisione; nulla più.
Come potevo io quindi credere veramente a questo? Come potevo pensare di non amare veramente alla follia quegli occhi attraverso i quali intravedevo ogni cosa? Come potevo non ciondolare il capo un attimo e sentire crepitarmi in petto la più sublime delle angosce, ed ignorare ogni riflessione sulla vita, e rimanendo in estasi, non viverla del tutto? Come potevo chiamarla ad alta voce dalla strada e cercare di manifestare qualcosa di così maestoso e triste com’era il nulla che provavo?

Due passi ancora, dopo due foglie accartocciate ai lati, e poi, di nuovo un’altra svolta, e infine, casa.
Lei chissà dove sempre. Io sempre lì.

Non penso che lei abbia mai capito quanto ero coinvolto da lei. Non penso che, dopo che la scuola ci ha divisi, forse definitivamente, lei abbia serbato nel suo cuore qualche fotografia dei miei sorrisi schivi, del mio parlare svelto e piano. E, dico ora, mentendo, non ha importanza. Al posto suo altre sono apparse nella mia vita, e poi si sono allontanate. Altre verranno.
E la strada per casa sua in fondo è sempre quella, a trecento metri o poco più da qui.

Ma forse, e adesso penso di averlo finalmente capito, non ero, non sono, né sarò mai in grado veramente di trovarla.

Marco Giorgini

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