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Diario di Viaggio – 8

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Diario di Viaggio – 8

Oggi è una giornata nuvolosa. Il cielo promette pioggia, e senza il sole che la scaldi, l’aria si è fatta fredda. Decidiamo di non allontanarci troppo dall’albergo. Fortunatamente a Kyoto ci sono tante meraviglie da ammirare che qualcuna è sempre nelle vicinanze. Optiamo per una visita ad uno dei più famosi templi del buddismo zen, il
Ryoanji.
Dopo un breve tragitto, arriviamo a destinazione. Come al solito si paga il biglietto di ingresso (poche migliaia di lire) e numerosi sono i giapponesi che in veste di turisti in visita sfoderano macchine fotografiche. Per un attimo mi ero dimenticato che Kyoto è mèta di turismo anche per loro.
Kyoto è tanto ricca di tesori artistici, storici e culturali che si può ben dire che essa rappresenti per il Giappone quello che per noi sono Firenze o Roma.
All’entrata è obbligatorio togliersi le scarpe, che vanno riposte in appositi scaffali oppure portate con sè in una sporta di plastica fornita sempre all’ingresso. Seguiamo anche noi la consuetudine e saliamo i gradini di legno consunti dal tempo e dal passaggio dell’uomo.
Il tempio zen giapponese è un insieme di varie stanze separate da pareti in legno e carta, che si aprono spesso su splendidi giardini.
L’intera struttura è rialzata dal terreno di mezzo metro circa. Si tratta in sostanza di una vera e propria abitazione in stile medioevale; infatti i monaci non solo vi pregavano e vi officavano i riti, ma vi abitavano.
Il pavimento di legno scurito dagli anni è gelato sotto i piedi scalzi. Le pareti di legno non dovevano poi offrire un gran riparo d’inverno. Nonostante Kyoto fosse molto ricca al tempo in cui era la capitale, abitare in quelle fredde stanze doveva essere molto duro. Mi tornano in mente i passanti che ho visto stamane per la strada: alcuni erano in maniche di camicia, mentre io avevo tanto freddo con la giacca a vento da entrare da Izumiya per comprare una sciarpa. Che i giapponesi siano abituati a temperature più basse delle nostre?
All’interno mi faccio incantare da tutto quello che vedo ed inizio a scattare fotografie, dimentico dei rigori della temperatura. Là, una campana di bronzo, col tronchetto orizzontale retto da corde che serve da batacchio. Lì, due giganteschi ideogrammi tracciati a mano con un pennello che doveva essere grosso come un braccio. In una stanzetta di pochi tatami un tamburo di pelle troneggia solitario. Chissà quante volte i monaci sono stati richiamati all’ordine dal suo suono imperioso. I pannelli scorrevoli che dividono le varie stanze sono mirabilmente dipinti, tanto da essere essi stessi stupende opere d’arte.
Gli scorci di giardino sono incantevoli, come mi aspettavo. Il muschio ha qualcosa di incredibile, sembra velluto verde che ricopra come un drappo tessuto da elfi la terra.
Nel mio vagabondare per i meandri del tempio (questa parola però non ricorda un luogo chiuso, mentre qui tutto è contatto con l’esterno, con la natura) arrivo finalmente al celeberrimo giardino zen. Lo avevo già visto in fotografia, ma… E’ davvero sconcertante come alcuni massi disposti ad arte e della ghiaia candida scupolosamente pettinata con un rastrello siano divenuti nelle abili mani dell’artista che creò questa meraviglia una sorta di paradigma di bellezza, una rarefazione del concetto stesso di giardino. Dopo la prima fotografia scattata inconsciamente, quasi per un riflesso condizionato, lascio ricadere in grembo la mia reflex, mi accosto al bordo del giardino di pietra, e mi siedo a gambe incrociate sul legno ghiacciato del passatoio, dove sicuramente tanti altri prima di me cercarono l’illuminazione.
Socchiudo gli occhi e lascio che la suggestiva immagine che ho davanti mi porti indietro nel tempo.
Il giardino zen è esplicitamente concepito per essere d’aiuto nella pratica della meditazione per il raggiungimento del satori, o illuminazione, punto chiave della dottrina zen. C’è chi vede nelle pietre grandi isole, e nella ghiaia ratrellata le onde del mare, ma non si dovrebbe cercare di intrappolare l’essenza del giardino di pietra con immagini mentali.
La disposizione dei massi è studiata con grande precisione, e fa sì che non li si possa mai vedere tutti insieme, dovunque ci si trovi all’interno del tempio.
Dopo un periodo di tempo che non riesco a definire, esco dallo stato contemplativo in cui ero caduto e mi rialzo. Un artista del 1500 mi ha comunicato qualcosa attraverso i secoli, col suo giardino di pietra.
Esco dal Ryoanji sempre più convinto che questo viaggio in Giappone sia tra le esperienze più straordinarie della mia vita.

8 – continua

Massimo Borri

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