Ciak-ciak. Ciak-ciak. Luca scende di corsa lo stradello di fianco alla chiesa, e ad ogni passo le sue scarpe di vernice colpiscono l’asfalto con un leggero clamore. Ha i corti capelli castani spettinati, sparati verso l’alto, arruffati; ha gli occhi quasi chiudi, la bocca aperta, il volto cianotico, un’espressione incomprensibile ritagliata ed incollata su due guance tremanti e sudate; ha in mano una cartella di pelle chiara, rovinata in più punti, con il manico rotto. La tiene stretta al petto, e corre, con grandi falcate, come se avesse il diavolo e tutti i demoni dell’inferno che se lo vogliono prendere e mangiare.
Sono le due e un quarto. E’ estate, e il sole di mezzodì, da poco non più a picco, ricava scarse ombre dai tetti poveri delle case. I muri, a prima vista bianchi come il latte, ma ad un attento esame pieni di
“bubboni” grigi o gialli, non hanno occhi né orecchie. Le finestre sono coperte da pesanti tende colorate, e le porte sono tutte chiuse.
A Menico non ci sono bar. I negozi, che si distinguono dalle abitazioni soltanto per qualche cartello dipinto a mano, o per qualche vetro sporco con su scritto “salumiere” o “fornaio”, a quell’ora non danno nessun segno di vita. Non ci sono passanti. Non ci sono vecchietti a ricamare l’aria con ghirigori di pipa, nè bambini vocianti che rimodellano le porte di un garage con un pallone da due soldi.
Ciak-ciak. Luca svolta a destra. La strada è in leggera discesa, e sassetti schizzano rabbiosi ai lati al suo passare. Il campanile sembra guardarlo da sopra le case con attenzione, e qualche piccione immobile sui fili del telefono, tirati da un lato all’altro della strada da qualche mano inesperta, si scuote appena al suo passaggio.
Luca respira affannosamente con la bocca, ha la fronte coperta di sudore, e le gambe iniziano a farsi pesanti. Ma non si ferma.
Pietro ha appena finito di scolare la pasta: mezze penne troppo cotte, dall’aspetto scialbo, che si accingono ad affogare in un sugo di pomodoro fresco e margarina. La sua cucina è semplice come lui. Ma la sua fame, dopo sette ore passate sull’ape tra Notto e Basato, e poi, di nuovo a Menico, sono un condimento che non lascia tempo agli indugi. Sente qualcuno correre lungo strada Barletta, e poi svoltare nella sua via. Scosta, distratto, la tenda, e guarda fuori. Il figlio del postino, con una borsa stretta al petto, corre come un matto.
La curiosità è figlia di arroganza, diceva il suo vecchio. Fatti gli affari tuoi, era la sua personale traduzione.
Si siede, e inizia a mangiare.
Luca non ha più fiato neppure per parlare. La fibbia davanti della cartella gli ha strappato la maglietta a righe, e sente un leggero dolore al petto. Vede la strada snodarsi davanti a lui come in un film, e ad ogni passo la sua testa rimbomba pesantemente. Sente di avere i denti serrati, ma non riesce più ad aprire la bocca. Continua semplicemente a correre. Da via Dei Servi a via Di Tommaso; da Di
Tommaso, a via Cavour, passando davanti alla farmacia, e da lì, allo stradello Augusto, di fianco alla casa del meccanico, fino al cortile dei Frizzi. Non si sente nessun altro suono che quello che la sua folle corsa produce. Non si vede per la strada nessun altro, a parte lui.
Sembra che il mondo inizi e finisca con lui, che il giorno stesso lo segua, e che il creato sia la sua pista, il suo percorso. Sembra che tutto il resto non sia che squallida scenografia di poco conto, niente più che sagome di cartone per nulla convincenti appoggiate sopra un brutto sogno nebuloso.
Corre, ansima, geme. Ma non riesce ad emettere nessun grido, nessuna voce.
Itaca, il cui nome infausto, appioppatole dal padre, amante dei classici, le ha procurato non poche ragioni di diffidenza nei confronti della gente, siede davanti alla finestra di camera sua, a leggere, pensare, e, quando se ne ricorda, a fare i compiti per il giorno seguente. Il cielo è terso, caldo, e lei, a diciassette anni ancora da compiere, vede in quell’immagine di sè (la finestra aperta, il cielo azzurro, e lei rinchiusa in una angusta stanza senza poster alle pareti, nè quadri, nè affreschi) qualcosa di particolarmente triste. Parossistico, avrebbe detto il padre. La vista di Luca, che, come un fulmine, passa sotto casa sua, senza fermarsi, nè lanciarle una sola occhiata, anziché diminuire questa visione della sua vita attuale, la ingrandisce, aggiungendo qualcosa di sensuale, eroico, ma non di meno, triste. Si chiede “perché?”. Poi “dove sta andando?”. Poi ancora, “da dove arriva?”.
Ma non sono queste domande già sentite, e già riconosciute come troppo grandi per riceverne risposta? Non sono queste domande adatte per definire tutto e tutti? Non c’è forse un disegno superiore a cui ognuno deve piegarsi?
La testa continua a farsi sempre più pesante, più confusa, più estranea. Un piede segue l’altro, rapidamente, ritmicamente. Il suono
è quello di una carretta sui ciottoli dello stradello. Le scarpe cigolano malignamente, e i piedi senza calze, urlano in silenzio per ogni passo, per ogni lunga falcata. Le strade sfrecciano ai lati, il mondo stesso cambia i suoi confini, i suoi colori. La corsa ritrova nel proprio interno un senso mistico. Luca sembra diventare viola, sembra trasformarsi un po’ ad ogni svolta. Destra. Avanti fino al cortile dei Marozzi. Sinistra, fino al cartello dello stop. Poi di nuovo a sinistra. Sempre più viola. Sempre più.
Stringe il suo tesoro al petto, lo stringe e corre come per precipitare, corre e tutto sfuma, cambia, s’ingiallisce. Non parla non pensa non grida. Ma le sue gambe sempre più deboli ed insicure sanno dove andare.
Alle prime luci dell’alba, Sergio vede il corpo di Luca, disteso sopra ad un prato, a due passi dal crocevia per Malagno. Gli si accosta titubante. “E’ di sicuro uno scherzo” pensa, mentre si sfrega rapidamente la mani contro il gilet, alla ricerca di una nazionale con filtro. “E’ di sicuro uno di quegli scherzi che i ragazzi fanno. I suoi amici saranno dietro alla curva.”
E, mentre nubi scure si apprestano ad infettare il cielo puro dell’estate, cariche di pioggia o altro e foriere di venti, raccoglie la piccola borsa di pelle chiara che Luca ha lasciato cadere a pochi passi da lui, e guarda avanti, come in attesa di un segnale.
Poi comprende.
E inizia a correre.
Ciak-ciak.
Ciak-ciak.
Ciak.