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Edipo Re

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Di che cosa ci parla la tragedia di Sofocle?

Di un uomo succube del proprio destino. Di come il fato o le divinità si prendano gioco di noi e di tutto il nostro operato.

Come reagisce Edipo al compiersi del proprio destino? Accecandosi, decidendo di non voler più vedere.

Ed eccolo il vero monito della tragedia. L’uomo davanti alla tracigità del proprio destino non si ribella, non prende posizione e lo accetta passivamente. E non solo, decide di accecarsi per non dover più osservare l’orrore del mondo in cui vive.

Pasolini sfrutta il testo dell’Edipo Re come possibile metafora del suo vivere contemporaneo.

L’uomo, sconfitto dagli eventi e dalla Storia, invece di cercare una rivoluzione, decide di non vedere quello che ha intorno per smettere di soffrire. Una pura illusione, perché anche se decidiamo di non voler vedere gli orrori che ci circondano, essi sono sempre presenti, pronti ad inghiottirci. Pasolini quindi incita ad una presa di coscienza, ad un agire concreto sulla Storia per poterla cambiare.

Se fosse vissuto un po’ di più, Pasolini avrebbe potuto notare quanto anche oggi la tragedia di Sofocle sia di estrema attualità, ma per motivi diversi. In un mondo dominato dall’immagine, in cui tutto assume valore in base al suo corrispettivo iconico, l’accecarsi (il non voler vedere) acquisterebbe forse un nuovo significato.

Quello di un gesto che potrebbe diventare rivoluzionario nel suo manifestarsi come negazione del potere dell’immagine stessa.

Perché se nel 1967 (anno di uscita del film) chiudere gli occhi significava far finta di niente rispetto a quello che succedeva nel mondo, proprio perché qualcosa succedeva realmente nella vita delle persone (intorno a loro), oggi chiudere gli occhi significa soprattutto non lasciarsi più stordire da tutte le immagini che ci raccontano i cambiamenti di un mondo di cui però noi non facciamo più parte se non come spettatori.

Le nostre prese di coscienza adesso avvengono davanti alla televisione, non più per le strade o fra la gente. Chiudere gli occhi diventa quindi la ricerca di un qualcosa di più vero e umano. Un qualcosa che le immagini non sono più in grado di darci.

Pasolini costruisce il suo film in maniera molto personale, rielaborando secondo la propria poetica il testo di Sofocle. Il regista sceglie di dividere la tragedia in un prologo, una parte centrale e un epilogo. Il prologo è ambientato negli anni venti (chiari riferimenti al fascismo), la parte centrale è ambientata in Marocco ed è in costume mentre l’epilogo è ambientato nella contemporaneità del regista stesso.

L’Edipo del finale è poco più che uno straccione, un mendicante, un uomo che cerca la fine della propria sofferenza nella memoria dell’infanzia, in quella sorta di luogo magico e atemporale in cui ci rifugiamo (ancora Bergman?) prima che la vita e il destino si accanisca contro di noi.

Splendide le rappresentazioni delle divinità, maschere allucinatorie che esprimono la visionarietà della tragedia greca e allo stesso tempo la potenza della manifestazione terrena del dio (il sacerdote dei misteri). Molto curati i costumi, mentre la musica sembra avere un valore dissonante e di disturbo.

Sarebbe interessante riaccostarsi a questo testo e andare oltre le note interpretazioni psico-sessuali che ne sono state fate.

Soprattutto per riscoprirne la potenza e la disarmante attualità.

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