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Diario di Viaggio

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Diario di viaggio – 6

Scesi dall’autobus iniziamo a percorrere il breve tratto di strada che porta al Padiglione D’Oro. Ci sono molte scolaresche in visita guidata, tutte con la loro uniforme.

In Giappone, in tutte le scuole elementari, medie inferiori e superiori, è fatto obbligo agli studenti di indossare una sorta di divisa. Ogni scuola ha la propria, leggermente diversa da quella di altre scuole, o meglio, ne ha due: una maschile e una femminile. Le uniformi maschili hanno un’aria militaresca ma essenziale, pantaloni e giacca scuri con bottoni metallici. A volte è previsto un berretto.
Per le ragazze sono d’obbligo la gonna e la blusa, a volte alla marinaretta. Chiunque abbia avuto per le mani un fumetto giapponese
(manga) con ambientazioni scolastiche, sa di cosa parlo.
Fatto curioso e che la dice lunga sulla severità del sistema scolastico nipponico, è che, pur essendo previste due versioni della divisa, estiva e invernale, sono previsti dei periodi dell’anno ben precisi nei quali indossare l’una o l’altra. Se il caldo tarda ad arrivare ma il periodo previsto per indossare l’uniforme estiva è già iniziato, allora occorrerà indossarla ugualmente.

Ci incamminiamo lentamente, attorniati da studenti in gita, coppie di coniugi col resto della famiglia al seguito, anziani signori con una attrezzatura fotografica che farebbe invidia a qualunque professionista… Tutto normale, insomma, la gente che ci si aspetta di incontrare in un qualunque luogo di grande interesse turistico. Che cos’è allora che mi sembra così diverso? Ci penso per qualche minuto e, arrivati all’ingresso, dove la gente si mette in fila per pagare il biglietto, capisco di cosa si tratta. E’ il silenzio. La gente chiacchiera, naturalmente, e le scolaresche ridono e scherzano, ma senza troppo chiasso, quasi sottovoce, senza quell’assordande berciare cui ero abituato. Curioso come un particolare così banale faccia tanta differenza. La disposizione d’animo con la quale ci si accosta al luogo visitato è completamente diversa: più calmo, ricettivo, pronto ad essere colmato dalla bellezza. E di bellezza qui ce n’è davvero tanta. E’ bellezza sottile, mai invadente o pacchiana, ma sobria e tranquilla, e pertanto enormemente più efficace e potente. Essa trasuda dal terreno e sale come nebbia, permea tutte le cose, in una armonia talmente superba che sembra opera di dei e non di uomini.

D’altra parte proprio qui sta la differenza maggiore tra l’arte giapponese e quella occidentale. Basta confrontare i due modi di interpretare il giardino nelle due culture. In Italia (e in occidente in generale) il giardino è un’opera di geometria, la sua bellezza è quella astratta delle figure, della matematica, in cui la natura viene rigorosamente incasellata e lavorata ad arte come fosse marmo sotto lo scalpello, inchiostro sopra un foglio, oro sotto il cesello. Alberi perfettamente allineati e irreggimentati in filari maestosi, aiole di fiori dai colori sgargianti che disegnano quadrati, rettangoli, trapezi, triangoli, ellissi, cerchi… Il giardino occidentale è un’ode all’uomo, alla sua intelligenza, al suo potere che gli consente di dominare la natura e di sottometterla al suo capriccio. Il giardino giapponese, al contrario, è un’ode alla natura. Tutto è suggerito, mai gridato; anche qui la natura è controllata, ma con tale maestria e accortezza che paradossalmente sembra non esserlo. Pare di essere in un bosco cresciuto da sè, l’intervento umano è invisibile all’occhio.
L’unico elemento rivelatore dell’arcano è la bellezza stessa: il giardino si fa bosco naturale, ma in natura non esistono boschi tanto perfetti… E’ qualcosa che pare uscito da una fiaba, qualsiasi scorcio potrebbe illustrare Tolkien, è la quintessenza del bosco stesso. Si può dire che il giardino giapponese sia un distillato di natura, la rappresentazione ideale di tutta la bellezza che si può incontrare vagando per monti e valli e prati…

Percorriamo un sentiero fiancheggiato da un bosco di bambù, alto e fitto. Diecimila tonalità di verde incantano l’occhio in una sinfonia muta, fatta di colori invece che di note. Poi, d’improvviso, si gira un angolo, una siepe si apre ed appare il Padiglione d’Oro. E’ impossibile trattenere un “oh” di ammirazione. Naturalmente so bene che quello che sto ammirando è una ricostruzione fedele in ogni dettaglio dell’originale, dopo che un pazzo lo distrusse appiccandovi il fuoco nel 1955. Tuttavia rimango ugualmente sopraffatto dalla sua bellezza. L’esterno della pagoda è interamente laminato d’oro. In qualunque altro posto sarebbe forse eccessivo, persino pacchiano: ma qui sembra di osservare una farfalla, o una fenice dorata che si sia posata per un attimo per specchiarsi nelle acque del piccolo lago del giardino. Che deliziosa leggerezza esprime questa architettura di legno e carta! Sembra che la farfalla possa spiccare il volo da un momento all’altro. Che contrasto con la nostra architettura di monoliti immensi ed immutabili, di pietra e ferro brunito! Mentre in occidente l’etimologia stessa della parola monumento indica qualcosa che è fatto per durare nei secoli (e qui ripenso alle tante stupende cattedrali he abbiamo in Italia, magari a due passi da casa) qui si sottolinea l’impermanenza, la leggerezza; comincio a capire come mai i giapponesi siano tanto affascinati dai fiori di ciliegio, tanto da farne un simbolo. Si tratta di concetti radicati profondamente nella cultura orientale: la bellezza è tale in quanto transitoria… I fiori di ciliegio cadranno nel giro di pochi giorni, e in questo sta lo struggente segreto del loro fascino.
L’aria è immota, il cielo ostenta grigie promesse di pioggia. Tutto sembra immerso in un’aura soprannaturale. Siamo ancora a Kyoto? La città non si vede più, nè si sente, sconfitta dalla vastità del giardino. E’ come se avessimo varcato una soglia magica, un portale invisibile che ci ha condotto in uno strano empireo… Ovunque l’occhio si posi, bellezza. Mi costringo a scattare delle foto, temo di non riuscire a fissare nella memoria questa meravigliosa visione, e ricorro all’ausilio della tecnologia. Com’è occidentale questo bisogno di catalogare tutto, scoprire tutto! Eppure anche i giapponesi scattano molte foto. Chissà cosa li spinge…
Ad un tratto mi rendo conto che la tipica immagine che affibbiamo al giapponese in visita all’Italia (macchina fotografica a tracolla con la quale immortala tutto ciò che vede) si adatta a pennello anche a me. Guardo la mia Canon, con la quale sto fotografando tutto quello che vedo, e non riesco a trattenere una sommessa risata.
Seguiamo il sentiero che si snoda attraverso il giardino del
Kinkakuji; il muschio, che qui prende il posto dell’erba, ha dell’incredibile. Il suo verde smeraldo punteggiato dalle foglie rosso fuoco cadute è qualcosa di indimenticabile. Arriviamo infine al santuario vero e proprio. Il Kinkakuji era in origine una residenza di un potente Signore, e alla sua morte venne convertita in tempio. La gente fa capannello attorno al sacrario, a turno scuotono una fune facendo risuonare così una piccola campana, per attirare l’attenzione delle divinità alle quali rivolgono una breve e silenziosa preghiera.
Tutto si svolge all’aperto, sottovoce, con estremo rispetto. Ecco, forse questa è la parola che meglio descrive l’atmosfera generale: rispetto.
Ci sono anche particolari che parrebbero stonati: gli onnipresenti distributori di bibite fredde e calde, ad esempio. Verso l’uscita due di queste macchine fanno bella mostra di sè. Non me la sento però di arrabbiarmi, anzi, addirittura ne approfitto per scaldarmi con una lattina di caffelatte caldo. Incredibile, è quasi decente. Certo molto meglio della brodaglia che esce dalla macchinetta del caffè di Facoltà a Modena.

Camminando per le strade di una città giapponese, ci si imbatte ad ogni angolo in qualche tipo di distributore automatico. La maggior parte distribuiscono bevande fredde o calde, in lattina, ma ci sono anche distributori di batterie, tessere telefoniche, pellicole fotografiche, riviste, ecc.
Tutte queste macchine danno il resto.
A Kyoto non ne ho trovata nemmeno una fuori servizio, deturpata da scritte o manomessa da vandali. Sembravano tutte messe lì il giorno prima. Paese che vai…

Al ritorno, scambio solo poche parole con Mauro, il mio compagno di viaggio. Quello che abbiamo visto non necessita di commenti o descrizioni. Entrambi sappiamo che rimarrà per sempre scolpito nella nostra memoria. Verrà anche il tempo delle parole, certo, ma per il momento lascio che le sensazioni fluiscano in silenzio.
Rispetto.

6 – Continua

Massimo Borri

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