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L’ippocastano

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L’ippocastano

Sul lato destro dell’immenso centro commerciale, al di là della strada che gli correva tutta attorno c’era il piccolo parco. Un’isola di verde posticcia ed artificiale posta in uno dei quartieri più nuovi e periferici della città. A pochi passi dalla strada ad acuire il senso di innaturalità di quel luogo c’erano giochi per bambini. Ma la cosa più artificiale erano gli alberi; esili tronchi effimeri che protendevano verso il cielo i loro sparuti rametti pieni di foglie.
Venivano su dal nulla, ognuno assicurato ad un palo lungo quanto lui perchè crescesse dritto e preciso nonostante il suo aspetto infermo e malaticcio. Crescevano in mezzo al prato centrale, ridimensionandone l’ampiezza, l’unica sua caratteristica pregevole. C’era un unico vero albero nel parco, un vecchio ippocastano che giaceva nell’angolo più lontano dal centro commerciale in un leggero avvallamento, che coi suoi rami adombrava appena un piccolo ritaglio di terreno. Una panca di quelle che erano piantate attorno ai camminatoi era stata divelta alla base anni prima, ora itinerava tutta l’estate a seguire l’ombra di quell’albero.
La panca era ancora nel punto in cui l’albero la rendeva fresca al tramonto, alle dieci di quel venerdì sera d’estate. Massimo, seduto sullo schienale di un’altra del tutto simile a quella, con le spalle rivolte al centro commerciale, l’osservava da lontano. Insieme ai suoi amici aveva spostato quella panca ad inseguire l’ombra per estati intere, qualche anno prima con i suoi amici. I suoi amici di allora, pochi dei quali erano rimasti con lui fino a quel momento. Non che avessero litigato o lo avessero abbandonato, nè lui loro, ma molto spesso più semplicemente il tempo e le circostanze li avevano divisi.
A poco a poco estraniati gli uni dagli altri. Molti di loro li aveva completamente persi di vista. A molti non pensava più da chissà quanto tempo. C’era da stupirsi che alcuni non li avesse mai più incontrati, nemmeno per caso. Al suo fianco, Fulvio fumava pigramente una sigaretta. Se la lasciava bruciare tra le dita anch’egli in silenzio.
Massimo lo sbirciò furtivamente, si chiese che cosa stesse pensando mentre il suo sguardo fissava dritto avanti a sè vacuo ed imperscrutabile. Non avevano parlato molto quella sera, dopo che si erano incontrati. Si erano semplicemente seduti in quel luogo in attesa. Anche Fulvio guardava verso l’albero. Ma Fulvio non poteva essere intento a ricordare le sue estati. Non si erano ancora conosciuti, allora.
L’auto di Diego si fermò con uno stridore di gomme parcheggiandosi nel cortile del centro commerciale, alle spalle dei due amici.
All’unisono, Fulvio e Massimo si voltarono ad osservarla. Giulio e
Roberto uscirono al seguito di Diego ed i tre si portarono al fianco degli altri due, salutandoli distrattamente. -Chi altro deve venire?- chiese Massimo. -Nessuno.- rispose Giulio. -Nessuno…- ripetè lui.
Era pieno agosto, e pochi tra coloro che gravitavano entro i labili confini della loro compagnia erano in città. -Siamo tutti qua.- confermò Roberto. “Ilaria.” A tradimento si intrufolò nella mente di
Massimo ed immediatamente esso prese ad ardere nel suo stomaco aumentando la velocità del battito del suo cuore. Dopo anni ancora non aveva vinto quell’emozione. Non c’era nessuna buona ragione per pensare ad Ilaria proprio in quel momento. Non usciva più con lui da un tempo immemorabile e dopo la fine della scuola i loro rapporti si erano rapidamente rarefatti. Giulio e Roberto non l’avevano nemmeno mai vista. Ciononostante tutte le volte che si faceva l’appello degli assenti lui non poteva non pensare ad Ilaria. Per Massimo era lei a mancare, sempre ed a qualunque appello, era come se ella fosse una studentessa che aveva cambiato classe i cui professori, dimenticando sistematicamente di cancellarlo dal registro, ne leggessero il nome ogni volta. -Che cosa si fa?- si risolse a chiedere Massimo alla fine.
-Andiamo in discoteca?- buttò lì Diego che fino a quel momento non aveva ancora parlato. -Ci siamo stati anche sabato scorso.- commentò indolentemente Fulvio che si era finalmente liberato della sua sigaretta dopo averne presa un’ultima forte boccata. Diego si strinse nelle spalle -Andiamo in birreria?- fece Giulio in un sussurro, quasi ad intendere che la proposta si bocciava da sè. -Sono tutte uguali le birrerie, e poi conosciamo tutte quelle qui attorno.- infierì Roberto.
Massimo sospirò. Tutte le sere la stessa fottutissima storia. E così, mentre i suoi quattro amici si becchettavano alla ricerca di qualcosa da fare che si discostasse dalla monotona piattezza dei loro giorni e delle loro notti, Massimo, sedeva silenzioso e guardava lontano, nel tempo passato. Pensava agli amici che aveva avuto, e poi guardava l’ippocastano laggiù in fondo, illuminato fiocamente e quasi per caso da lampioni che servivano ossequiosi altri scopi. L’ippocastano, che così maestoso e fiero, sebbene solo, aveva saputo essere persino romantico. Tanto tempo prima. Un milione di anni prima, al tempo di
Ilaria. Quando lui era un ragazzino e lei anche. Ma allora tutto era diverso, la vita aveva un pulsare devastante, ogni evento era una scoperta e un’emozione, ed anche le sconfitte avevano un vago sapore di vittoria. Mentre ora erano le vittorie ad avere anch’esse il sapore della sconfitta. A volte si chiedeva che cosa fosse successo. Non c’era più Ilaria, certo. Ilaria l’eterna assente che andandosene si era portata via con sè la vita. -A te va bene la discoteca?- Massimo fu risvegliato dalle parole di Giulio. -Come volete.- rispose lui con un sospiro.

A mezzanotte Fulvio, Giulio e Roberto stavano ballando. Massimo sedeva ad un tavolo con Diego ed i due centellinavano la distruzione del loro tempo osservando le ragazze che passavano lungo il camminatoio e quelle che sedevano ai tavoli. Ce n’erano di agghindate ad arte, ma anche di quelle che parevano essere uscite i casa in fretta con una maglietta qualsiasi ed un paio di jeans comunissimi. Provava simpatia per loro, perchè trovava che nel regno delle trasgressioni da due soldi fossero le persone più anticonformiste. -Non è male, qui, dovremmo venirci più spesso.- affermò Diego ad un certo punto. -Si,- confermò Massimo, -anche se…- -Che cosa?-
-Anche se a me piacerebbe fare qualcosa di diverso che non sia andare in discoteca, almeno di tanto in tanto.- s’interruppe -Comunque questo posto è di certo meglio di molti altri.- Diego ignorò la seconda parte della sua affermazione: -E’ perchè a te non piace ballare.- disse.-No,
è perchè a me non piace dover urlare per farmi sentire. E poi… e poi qui c’è un’atmosfera di eterna festa della quale io non sono molto partecipe.- rispose Massimo. Diego affidò nella sedia, il suo volto era come sempre impenetrabile. Rideva assai di rado, ed ancora più di rado lasciava trasparire un’altra emozione che non fosse una breve e passeggera allegria. -Io non credo di aver mai conosciuto nessuno in discoteca.- disse d’un tratto. Massimo si dimenò sulla sedia in segno di dissenso -No intendimi, ci ho conosciuto un sacco di gente, ma sempre gente che non è rimasta. Gente che non ha inciso per niente nella mia vita.- considerò lui -Forse è stata colpa mia, io non sono molto espansivo.- Diego s’interruppe. -Comunque credo che il problema di che cosa fare la sera sia un poco di tutte le compagnie come la nostra. La verità è che non c’è proprio niente di speciale da fare.-
D’un tratto Massimo si chiese se tutti coloro che non erano così superficiali da farsi bastare un istante di godimento fossero ripiegati su loro stessi ad auscultare il proprio male di vivere interiore. Forse si. Anche Diego lo era a modo suo. Forse era così per tutti, anche se aveva una forma diversa per ognuno. Proprio come per lui aveva quella di Ilaria. Ilaria la chimera. Ilaria l’eterna assente, che forse non esisteva nemmeno più al di fuori dei suoi pensieri persi nel passato.

Massimo sul sedile posteriore dell’auto di Diego era proteso in avanti col capo reclinato sul poggiatesta del sedile anteriore. Aveva bevuto un po’ troppo e si sentiva intorpidito, ma perfettamente lucido nella sua malinconia. C’era silenzio in auto, fatta eccezione per la radio che suonava pigra una musica sgradevole e vagamente molesta. Avevano bevuto un po’ tutti, a parte Diego che li riconduceva a casa, ma soltanto Giulio aveva passato davvero il limite. Sedeva immobile con aria sofferente. Non si era quasi mosso durante tutto il viaggio di ritorno. Massimo lo osservava. Gli pareva lo specchio di tutta la loro vita. E l’immagine che rifletteva non gli piaceva affatto.

Agli occhi attenti di Massimo non sfuggì l’innaturalità dell’itinerario di Diego. “Allo scopo di accompagnare Giulio per primo” voleva che si pensasse, ma Massimo sapeva bene che il vero scopo era di accompagnare lui per ultimo. Le strade erano deserte.
Niente di strano, vista l’ora tarda, lo stupore derivava piuttosto dal fatto che la differenza tra il giorno e la notte fosse così sottile.
-Pare che siamo le uniche persone rimaste a casa.- commentò Massimo, quando l’amico ebbe accostato sotto la sua casa ed i due erano rimasti soli. Esitava a congedarsi. -La città ha un’aria decadente.- aggiunse.
-Forse ce l’ha sempre e noi ce ne accorgiamo solo in queste circostanze.- fece Diego. Vi fu una pausa di silenzio imbarazzato. Non era per quello che erano lì. Nessuno sapeva come attaccare il discorso, ma era nell’aria e per questo se ne stavano entrambi immobili, il guidatore senza nessuna intenzione di ripartire ed il passeggero senza nessuna di scendere. Poi Diego spense l’auto ponendo il sigillo alla loro incipiente conversazione: – E’ tutta la sera che ti frulla per la testa, perchè non lo dici e basta?- disse. Aveva una sfumatura di irritazione nella voce che gli era alquanto inconsueta.
Non era veramente arrabbiato, ma faticava a dire una frase del genere senza darle un’intonazione. Massimo, dal canto suo avrebbe voluto parlare, ma non ci riusciva. Gli pareva d’essere troppo stanco per iniziare un discorso così lungo. Si sentiva svuotato, come una scatola da scarpe in cui pochi semi che erano i suoi pensieri, sbattevano all’impazzata contro tutte le pareti producendo un suono infernale sebbene debole. Avrebbero potuto generare gli alberi più rigogliosi, ma invece erano persi nell’aridità di quel nulla. Diego sospirò impazientemente, detestava quel silenzio. E i secondi scorrendo presero a compattarsi in minuti mentre Massimo non trovava il bandolo per iniziare. Diego scalpitava, cambiava posizione e meditava di andarsene, e l’irritazione lo assaliva ad ondate. Ogni volta pensava che non si sarebbe contenuto, ma alla fine lo faceva. Diego non sbottava. Mai. Poi Massimo parlò:- Portami da lei.- Diego sgranò gli occhi, non credeva alle sue orecchie. -Che cosa?- -Portami da lei.- ripetè, ma in maniera così impercettibile che l’amico intuì l’ultima parte piuttosto che sentirla. -Ma tu scherzi, sono le tre del mattino,
Max!- Diego aveva capito al volo. Si aspettava Ilaria, sì, ma non quello. -Non me ne importa niente.- -Ed è più di un anno che non la senti e non la vedi.- proseguì l’altro incurante. Massimo aprì la portiera dell’auto rabbiosamente. Di scatto Diego gli catturò il polso: -Tu sei sbronzo, questo è il problema, non stai ragionando come una persona normale.- Negli occhi dell’amico c’era sfida: -Andrò da solo se non mi accompagni, dico sul serio, lo sai.- Diego sospirò:
-Si… lo so, si.- s’interruppe e riaccese la macchina -Chiudi la portiera.-

Fuori dalla casa di Ilaria, a fari spenti, i due se ne stavano seduti fermi l’uno di fianco all’altro. -Questa è la più grande stupidaggine del mondo.- commentò Diego. -Perchè mi hai accompagnato allora?- chiese Massimo. -Perchè stavi per cacciarti nei guai.- grugnì l’altro.
I due rimasero in un silenzio immobile per diversi istanti. Massimo non si risolveva a scendere nè l’altro a parlare. -Credo che tu ti stia sbagliando, Max.- disse alla fine Diego. -Riguardo a chè?- -Ad
Ilaria- rispose lui ancor prima che l’altro avesse concluso -Non è lei il problema.- aggiunse, e pensò che quella era la conversazione giusta. Quella che avrebbero dovuto fare già davanti a casa di
Massimo. -Il problema è dentro di te.- L’amico non disse nulla. -Max, sono passati tre anni dacchè vi siete lasciati.- -Siamo sempre rimasti amici e abbiamo continuato a frequentarci…- si difese l’altro, le parole che gli uscivano faticosamente dalla bocca. -Si è vero, e questo è molto lodevole da parte vostra.- fece Diego anche se la sua era molto più una concessione che una convinta presa di posizione. -Ma dalla fine della scuola vi siete persi di vista.- -Lo so, ma è che… avrei dovuto tenerla più stretta a me, tutto qua. Se lo avessi fatto, noi…- -Voi non sareste proprio nulla.- lo interruppe Diego con rabbia, e questa volta era vera. -Ma io provo ancora qualcosa per lei.- c’era un chè di puerile stizza nelle parole di Massimo. -No. Tu ami il tempo che avete trascorso insieme. La tua innocenza. Il tempo in cui tutto era nuovo ed ogni evento una scoperta, ed in cui il divertimento era spensieratezza. Non tornerà più Max, non esiste più l’Ilaria che tu vuoi, e se anche esistesse tu non sei più la persona che poteva stare con lei.- Massimo aveva gli occhi bassi. Avrebbe voluto negare, ma non ci riusciva. Non rialzando lo sguardo almeno, e dirlo guardando verso terra avrebbe significato dare ragione a Diego.
E perchè non farlo, poi? Dopotutto Diego aveva ragione. Perfettamente ragione, ed era proprio per quello che le sconfitte di allora avevano un sapore migliore delle vittorie di ora. -Ora invece tutto è vecchio, ed il divertimento…- continuò Diego, ma non concluse. Le loro serate erano il divertimento. Quelle che passavano a chiedersi indolentemente l’un l’altro cosa fare. E alla fine, Massimo si decise a parlare.
Pacatamente a cercare di dire ciò che da sempre lo tormentava:- Non c’è un luogo dove io mi senta a casa.- disse- Ovunque, c’è sempre qualcosa che non va, che mi fa sentire sottilmente a disagio. Un tempo, io ed Ilaria ci sedevamo all ombra di quell’ippocastano nel parco ed io posavo la mia testa sulle sue ginocchia.- s’interruppe.
-Io lì ero veramente a casa. E mi sentivo invincibile perchè finchè ci fosse stata lei a carezzarmi la testa, se anche il mondo se ne fosse andato a gambe all’aria io sapevo che avrei resistito.- s’interruppe lungamente, e poi, dopo un tempo che parve infinito -Vuoi sapere una cosa strana? Io ed Ilaria non siamo mai stati insieme.- Diego non disse nulla. -Non ci siamo mai nemmeno baciati.- Massimo sorrideva amaramente: -Parlavamo, o stavamo soltanto in silenzio e abbracciati.
I nostri sguardi e le nostre carezze erano più eloquenti di tutte le parole del mondo.- Egli guardò fuori dal finestrino:- Anche in mezzo alla gente. Anche in mezzo ai miei amici migliori, io mi sento disperatamente solo. La gente passa. Ci esci per un po’ e poi… si strania, si allontana a poco a poco. E un giorno te la trovi di fronte e ti accorgi di non conoscerla più.- -E’ successo così tra te e
Ilaria?- chiese Diego.- Si.- rispose Massimo. -Non tornerà più, lo so, ma è difficile quando perdi la felicità e non sai nemmeno perchè. Io mi sono congedato da lei in sordina, senza far rumore, e quando il nostro rapporto si è interrotto completamente è stato come staccare la macchina che da cuore e respiro ad una persona già da tempo irreversibilmente morta.- -Non è stata colpa tua.- -Nemmeno sua se è per quello. Ma certe volte rimpiango di non essermene andato almeno sbattendo la porta un po’ più forte. Di non averle nemmeno ricordato che cosa avevamo perduto. Non voglio che tutto sia finito così. Magari potrei andare da lei, domani, forse anche lei la pensa come me…- lasciò la frase a metà, a fluttuare nell’aria. Diego gli mise la mano su una spalla. -Andiamo a casa.- disse.

Tardo pomeriggio. Massimo vagava solo ai bordi del parco. Guardava l’ippocastano e la panca sotto cui stavano quattro amici che discutevano animatamente. “Avranno quindici o sedici anni.” pensò.
“Avremmo potuto essere noi” considerò “Lo abbiamo fatto tanto spesso di litigare per motivi futili.” Non sempre si erano riappacificati, ma quello era il tempo sconfitte vittoriose e di Ilaria che carezzandogli la testa lo rendeva invincibile, e guardandolo già gli parlava e si faceva capire meglio di chiunque altro. Ma era un altro mondo, migliaia di miglia lontano quello di Ilaria. Ilaria l’eterna assente che tale sarebbe rimasta quel giorno e sempre perchè lui non sarebbe andato da lei quel giorno, nè mai. Massimo pensava. Anche se la sera precedente non era stata quella giusta per Diego, col tempo forse anche lui avrebbe trovato il coraggio di manifestargli che sentiva qualcosa di molto simile a ciò che sentiva lui, anche se il suo male non si chiamava Ilaria. Massimo lo sapeva. Glielo leggeva in faccia. E se tanti altri, perchè non potevano essere soltanto lui e Diego, si sentivano così allora forse non erano nemmeno loro il problema. Forse in fondo era proprio il mondo in cui loro vivevano non la sua Ilaria o quella di Diego, l’eterno assente dei loro tempi. Un maestro che mancava a tutti gli appelli e lasciva i suoi scolari perduti in un’anarchia senza senso. Massimo riprese la sua strada con lo sguardo sul selciato. In mezzo vi scorse una castagna selvatica. La raccolse e la strinse nel palmo finchè le giunture delle falangi non sbiancarono.
Poi volse lo sguardo verso l’alto e guardò l’albero che aveva lasciato cadere quel seme. Lo guardò protendere i suoi rami verso l’azzurro.
Sembravano vivi, agitati lievemente dal vento. E osservandolo Massimo pensò. Pensò che se in quella prigione di freddo cemento c’era ancora posto per un albero che si levava così indomito, secolare e maestoso, forse il loro mondo non era davvero assente ma magari soltanto addormentato sotto la pietra e l’asfalto. E che dunque poteva esserci ancora vita, bastava trovare un terreno fertile e protetto per farla crescere. Come quel prato.
O il suo cuore.

Massimiliano Prandini

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