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Diario di un frate…

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Diario di un frate

francescano

sul tema dei problemi giovanili

Assistere al funerale di un vecchio amico è qualcosa di molto triste.
E’ infatti inevitabile cadere nei ricordi d’infanzia e nella nostalgia dei tempi andati, le speranze, le illusioni. Nella mia ancor breve esperienza di vita ho maturato la convinzione che le varie età non differiscano nei problemi e nelle difficoltà. La differenza sta tutta nel modo di rapportarsi alla realtà. I bambini sono spensierati perchè si immergono in un mondo tutto loro dove una cosa, se non va, può essere cambiata con un semplice gesto della fantasia. Il fatto è che i bambini sentono palpabile l’esistenza di quel mondo, semmai è la vita reale ad essere lontana. L’adolescente vede crollare lentamente quel mondo sotto la spinta di domande, disgrazie, esperienze nuove. E’ come l’ancièn regime che cade nel confronto con le nuove idee illuministiche. Il guaio è che un nuovo mondo non viene creato da un’ immaginazione ormai impotente, ma non si riesce ad accettare la vita reale, perchè le passioni sono ancora da bambini, forti ed impetuose.
Manca la droga costituita dalla creatività, che permette di non impazzire. Così si creano illusioni e si fanno progetti; essi servono per creare un nuovo mondo fantastico ma, giornalmente frustrati, portano alle crisi esistenziali che caratterizzano quell’età. Penso che la situazione dei giovani sia la più difficile proprio perchè è un periodo di travaglio in cui non si è ne carne ne pesce; io personalmente ho toccato con mano in modo molto diretto questo travaglio, avendo avuto la sfortuna di veder crollare il mondo dell’infanzia tutto in un botto, in un modo così bizzarro che se lo raccontassi mi metterebbero sotto analisi. E ora, mentre guardo la tomba di Paolo e la pioggia mi score sulle guance, mi ricordo quel pomeriggio di dieci anni fa, a casa di Marco, un altro mio amico di cui ho perso le tracce.
Il nostro mondo dell’infanzia era un gioco di ruolo. Non ricordo con esattezza quanti eravamo, né da quanto tempo giocavamo. Sicuramente abbiamo smesso sui vent’anni, sicuramente è stata la sera del compleanno di Paolo. Eravamo giocatori professionisti. Tutti bravi ragazzi e brave ragazze che si divertivano in un modo apparentemente innocuo anche se forse, dicevano, un po’ infantile. Eravamo talmente bravi che durante la partita tu non eri te stesso ma il personaggio che interpretavi, pensavi e agivi come lui. In ultima analisi tutta la nostra amicizia e tutto il nostro rapporto con le ragazze era basato sul gioco. In tanti anni avevamo caratterizzato una moltitudine di personaggi diversi che, in definitiva rappresentavano altrettante sfaccettature dei nostri carattere. Era un modo per confrontarsi, per eliminare le barriere interpersonali, non diverso dall’andare in discoteca o dallo ubriacarsi, oppure dal crearsi una maschera con cui rapportarsi agli altri. Il suo pregio era l’incredibile potenziale metaforico, che polverizzava ogni inibizione al dialogo (tutti i temi più scottanti ed i tabù irrisolti li affrontavamo così), il suo difetto era che, apparentemente, era innocuo. Così ci spingevamo sempre più avanti nella ricerca di perfezione interpretativa finendo, in definitiva per estraniarci dalla realtà. Iniziavamo ad accorgerci che qualcosa stava cambiando, in noi e che, presto, l’involucro del gioco sarebbe esploso non riuscendo più a contenere le nostre menti ormai mature, che non sarebbe stato in grado di traghettarci senza danni all’età adulta. Eravamo ancora un po’ bambini. Era però una consapevolezza latente così, quella sera, eravamo impreparati a quello che ci aspettava.
Iniziammo a giocare in modo normale: il nostro master, Paolo, ci descrisse il luogo: un dungeon artificiale con la muffa alle pareti.
Una ragazza, la mia ragazza, Monica, cercò porte segrete e ne trovò una che dava su un cunicolo stretto, freddo e con poca luce. Monica decise di non seguire il gruppo e di entrare nel cunicolo. Noi proseguimmo per la galleria principale. Mi sono spesso soffermato a meditare su come la storia sarebbe potuta cambiare se non ci fossimo divisi o se Paolo non avesse messo lì una porta segreta. E’ un’altra metafora della vita che si trovava nel nostro gioco: essa è fatta di bivi in cui scegliere e non sempre scegli quello giusto, soprattutto se non hai l’esperienza di un adulto. Comunque Paolo lanciò alcuni dadi e ad un tratto comunicò: “Monica, sei rimasta chiusa nel cunicolo, la tua torcia si è spenta, senti strani rumori attorno a te.” Fu lì che successe qualcosa di strano. Monica iniziò a tremare e a girare la testa, strabuzzando gli occhi, come qualcuno che non vede più ed è molto spaventato. “Ho paura del buio” la sua voce aveva un che di infantile ed ancestrale. “Su non fare la scema” – le dissi io –
“Comunque ti sta bene, così impari a lasciare il gruppo”.
Pochi secondi dopo capii che non stava scherzando. Farfugliava frasi sconnesse e ricche degli errori grammaticali tipici dei bambini, era cianotica e fredda. “Cosa possiamo fare?” Qualcuno ebbe l’idea un po’ bizzarra di andarla a salvare tramite il gioco.
Ritornammo indietro ed entrammo nel cunicolo. Fu a quel punto che entrammo tutti in una specie di realtà virtuale. Il cunicolo era intorno a noi, eravamo bardati come i nostri personaggi, ma come in negativo vedevamo la nostra forma reale. Allucinazione collettiva.
Potevo sentire tutte le menti dei miei amici, in un certo senso eravamo in contatto. Monica non era dove si sarebbe dovuta trovare secondo la cartina di Paolo. La chiamavamo e lei rispondeva piagnucolando. Lentamente ci rendemmo conto che l’ambientazione era cambiata in qualcosa che doveva essere un parto della mente di Monica
(o della nostra?). A un tratto cademmo in una trappola (“Non l’ho mesa io” si la mentava il nostro master) e ci trovammo in una specie di grande stanza con tante celle. C’era anche Monica. Le celle erano in realtà lussuose camere d’albergo con le sbarre nascoste dietro tendaggi cremisi. I prigionieri ridevano e scherzavano, sembravano contenti, ma noi potevamo vedere il loro vero stato d’animo. Erano ragazzi e ragazze consapevoli di essere in prigione, di non potersi mostrare con il loro volto: dovevano essere detenuti modello.
Guardammo meglio ci accorgemmo che i singoli prigionieri erano in realtà separati da vetri trasparenti e che ogniuno di essi era, in definitiva, isolato dagli altri. I vetri distorcevano immagini e parole. Non riuscii ad abbracciare Monica perchè anche tra noi era emerso il vetro. Tutti eravamo chiusi nei cilindri trasparenti.
Lentamente capimmo. Il nostro gioco ci aveva mostrato la verità con l’apoteosi di tutte le metafore, diventando quasi vivo. La consapevolezza durò pochi istanti, fu un’esplosione che sciolse il nostro contatto mentale e ci precipitò nella vita reale. La nostra fantasia aveva fatto l’estremo sforzo ed ora giaceva, esausta, ai piedi della nostra mente ormai esposta nuda al mondo. Eravamo diventati adolescenti e giovani adulti quasi contemporaneamente, saltando il periodo di transizione. Non tutti avremmo resistito allo schok, la nostra amicizia non sopportò la nuova situazione e ci perdemmo di vista. Non so chi di loro sia ancora vivo, del resto è stato un caso che io abbia dovuto celebrare il funerale di Paolo, come frate francescano del cimitero locale. Nelle lunghe notti passate a meditare nella mia cella in convento, ho spesso meditato sul significato di questa storia. Credo che la prigione-albergo fosse la vita e i vetri trasparenti le incomunicabilità nascoste dietro il dialogo e quel maledetto cunicolo poteva rappresentare i meandri più oscuri della nostra mente, dove è custodita una sapienza arcana: Un uomo, quando è insieme ai suoi simili, non riesce ad essere completamente se stesso e a realizzarsi, dovendo scendere a compremessi con gli altri. Questi compromessi sono le maschere che ci impone la società, necessarie agli uomini per convivere senza eccessive frizioni. Se si permettesse a ogni uomo di estrinsecare tutta la propria personalità sarebbe come mettere tanti atomi instabili insieme, si avrebbe una società sull’orlo di un’esoplosione nucleare. Soltanto da isolati possiamo esprimere tutta la nostra personalità, ma siamo scontenti perchè non possiamo mostrare le nostre doti agli altri uomini. Questa contraddizione di fondo è, secondo il mio modesto parere, il male latente di tutta la vita umana. Ciò che rende i giovani fragili, e pieni di problemi è proprio l’impatto con questa rivelazione che, diversamente da ciò che è successo a me, è graduale. L’adulto trova l’equilibrio quando si rassegna a una vita di compromessi, il bambino non ha ancora avuto la consapevolezza di questo problema. Il bimbo può, infatti, sempre trovare la valvola di sfogo del proprio carattere nel suo mondo dei sogni personale. E’ il giovane, che non ha ancora la maturità per scendere a compromessi, ma non è più accecato dalla propria fantasia, ad essere nella situazione psicologica più complessa. Così si rifugia in droghe, musica spaccacervello, alcool e tutto quello che, in definitiva, è un surrogato della fantasia infantile. E’ una catena infinita di metafore che ne incatenano e soppiantano altre, tutto questo per cercare di non vedere direttamente le brutture del mondo reale. Mi viene in mente, in proposito, una filastrocca di cui non ricordo l’autore. Parla di un simbolo che ne incatena altri, forse una delle più azzeccate metafore della vita umana.

“Tre Anelli ai signori degli elfi

Sotto il cielo che risplende

Sette ai principi dei nani nelle loro rocche di pietra

Nove agli uomini mortali

Che la triste morte attende

Uno per il Sire oscuro

Chiuso nella reggia tetra

Nella terra di Mordor dove l’ombra nera scende

Un anello per trovarli un anello, per domarli

Un anello per ghermirli e nel buio incatenarli

Nella terra di Mordor dove l’ombra cupa scende.”
Gabriele Sorrentino

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