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Ivo lo Sgombracantine

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Ivo lo Sgombracantine

Traballante e sbilenco l’ape apparve scoppiettando da Vicolo Ranocchi e inchiodò davanti al bar. Ne discese una figuretta male in arnese e così minuta da far apparire spaziosa la piccola cabina.
Lo vedevo muoversi a scatti come un criceto mentre gli occhi non cessavano di lanciare intorno rapidi sguardi. La barba incolta e scura e l’eterna camiciola rappezzata gli conferivano un’aria da barbone ma chi conosceva Bini Ivo detto Il Furtivo sapeva bene che barbone non era. Semplicemente non dava grande importanza alla forma. Quando molti mesi prima aveva trovato quella camicia nel corso di uno sgombro, gli era piaciuta subito. L’aveva provata. Gli stava giusta giusta. Un caso? Un segno del destino? Mah, comunque non se l’era più tolta.
Di colpo si bloccò e dai jeans trasse un rotolino di scotch e un foglietto sgualcito che appicciccò sul cassonetto della spazzatura.
” BINI IVO SGOMBRACANTINE, DITTA REGOLARMENTE AUTORIZZATA e sotto
PORTO VIA TUTTO QUEL CHE TROVO E NON VI CHIEDO UN SOLDO PERCIO’ NIENTE
SCHERZI SE C’E’ QUALCOSA CHE VI INTERESSA VE LO PRENDETE PRIMA CHE
ARRIVO IO. Seguiva un numero telefonico.
Oramai era difficile fare un passo per il centro storico di Bologna senza imbattersi in uno dei suoi avvisi, grandi come una mano e fatti con la fotocopiatrice. All’inizio gli spazzini li strappavano ma lui pareva avere il dono dell’ubiquità e le sue locandine pure. Per uno che toglievano venti ne comparivano, così avevano lasciato perdere.

– E’il posto migliore – diceva sempre – lì prima o poi ci capitano tutti! – e a forza di patacchini era diventato un personaggio.
-Vedi, quello lì è Ivo – se lo indicavano per la strada le signore – se hai bisogno di fare spazio nella cantina o in solaio, chiama lui.
L’è cinein mo l’è una furia. Va come un treno! –
Sì, perchè Il Furtivo non stava fermo un momento e, salvo i pisolini che schiacciava nell’ape all’ombra di un platano, pareva non riposare mai. Di giorno e di notte, a piedi o più facilmente sull’ape stracarico di mobili in equilibrio precario, lo si poteva incontrare ovunque.
Io lo avevo conosciuto per caso nel laboratorio di un amico al
Pratello. Da allora mi era capitato un paio di volte di scambiare con lui due chiacchiere o di offrirgli il caffè.

Un giorno mentre passavo dalle parti di via Pietralata, regno un tempo di vecchie battone e magnaccia, mi sentii chiamare da un androne.
– Dottore, Dottore! – per lui tutti quelli che portano la cravatta lo sono – se ha un attimo, venga su che ci faccio vedere qualcosa di bello! –
Così scoprii che Ivo abitava lì.
Scale strette e malconce, ringhierina di ferro e, alta sul muro, una impolverata madonnina di coccio dall’aria rassegnata.
Primo piano.
Dentro, una quantità esagerata di mobili d’ogni genere, un vero bazar.
Qualche canterano dell’otto, sedie e soprammobili ammonticchiati ovunque, un paio di vecchie radio dai pomelli in bachelite rossiccia.
In un angolo un’elegante vetrina liberty e una grande sagrestia settecentesca in noce, tante cornici vuote, ombrelli malconci e un’aria di chiuso come se nessuno aprisse mai le finestre. Dal lampadario un Cupido grassoccio e dorato puntava con aria sfiduciata la sua unica freccia.
– Venga, entri e scusi il disordine… da quando non c’è più mia mamma… io con le faccende domestiche non ci so mica molto fare eppoi sa com’è, con il lavoro…-
Sgusciava tra tutta quella roba come un’anguilla. Compariva e scompariva di continuo e gli stretti passaggi parevano fatti a misura delle sue microscopiche dimensioni. Lì nel suo mondo sembrava un altro. Aveva perso i modi circospetti che gli avevano valso il soprannome e non la smetteva di illustrarmi questo o quell’oggetto.
Di ognuno si ricordava dove lo aveva trovato e in che circostanza, il nome della ex-proprietaria, tutto insomma.

Non facevo in tempo a fermare lo sguardo su una cosa che già lui mi trascinava avanti.
– Guardi, guardi questo qui! Vede? Puro Liberty! E guardi ‘sta cassapanca… vede? Tutto noce massiccio… senta, senta che peso! A dir il vero e’ piena di roba. Tant’è che quella volta, saran tre mesi, mi dovetti fare aiutare da Stufilein, quello sfaticato. La portammo via così piena perchè non trovavano più la chiave. Quaderni… vecchi registri del nonno che doveva essere un fascistone o roba del genere.
Pensi che non l’ho ancora aperta. Appena trovo il tempo… –
Stufilein, un ex manovale chiamato così perchè fischiettava di continuo canzoni di San Remo, completava la forza lavoro della
Premiata Ditta Bini Ivo, che però ricorreva a lui quando proprio non poteva farne a meno. Di solito Ivo si arrangiava da solo, con l’unico aiuto di qualche metro di cinghia da tapparella.
Su quella schiena di bimbo riusciva a caricare le cose più incredibili.
– Il segreto sta nel trovare il giusto equilibrio – tagliava corto, con rapidi gesti e il busto tutto curvo in avanti.
Lo avevo perso di vista in quella specie di deposito, tra bei mobili e orrendi zavagli per i quali pareva avere una strana simpatia.
All’improvviso mi comparve davanti, come un folletto.
– Cos’è che le volevo mostrare, ch’an m’arcord piò? Ah, sì, certo, la
Silviona! E’ di là, venga. Che gliene pare, non è stupenda? L’ho chiamata così dal nome della proprietaria.
E con gesto solenne, come un ministro all’inaugurazione di un monumento, strappò il lurido lenzuolo, scoprendo un lungo e basso buffet anni sessanta impiallicciato in ciliegio. Sfavillante di coppale e arricchito da vetri con scene campestri e leggiadri piedini d’ottone a punta, mi parve davvero orripilante specie se confrontato con la madia che gli stava accanto.
– Questo qua non lo do via – e con gli occhi e la mano ne sfiorava amorevole la superficie lucida come una caramella appena leccata – ma se c’è qualcosa che le interessa lo dica pure. A lei ce la do e le faccio pure bene, Dottore! –
Quel misto di animalesca furbizia e di ingenua ignoranza mi aveva preso in simpatia fin dal primo giorno. Forse perchè non avevo mai cercato di approfittarne o forse perchè, diceva, tanti anni prima aveva sgomberato il garage di mia nonna.
– Una vera signora, sua nonna e che cuoca! Me la ricordo, sa? Assieme al caffè mi offrì della torta squisita.
– Questa è casa mia, sa? – e mi fissava con piccoli occhi da mustelide
– mica un negozio. Mai portato nessuno qui. Lei è il primo, sa? –
Sì, capivo che lo aveva detto d’impulso ed ero portato a credergli.
– Guardi qui, ne vuole qualcuna? – era già sparito, piegato in due dentro a un baule da viaggio e ricomparendo dopo un attimo con una scatola da scarpe in mano.
– Questa viene da via Gandino, una zona di signori, vedesse che case!
Chissà perchè le misero in cantina, comunque sono più di duemila, vede?-
Roba da non credere!. Un mucchio di monete da 500 lire, di quelle d’argento con le caravelle.
La scatola ne era piena, alcune opache ed ossidate, altre ancora lucide e brillanti.
Gli occhi gli sfavillavano di piacere nel vedere la mia sorpresa davanti a quel piccolo tesoro e intanto ne muoveva la superficie con leggeri colpetti delle dita. Lentamente, come se godesse a sentirne il debole tintinnio.
– Uno di questi giorni vado da Gaudenzi a sentire cosa mi da.
Veramente lo dico da un pezzo poi vengo qui, le guardo, le rimescolo e mi pare di essere Paperon dè Paperoni – e giù una risatina che scoprì piccoli denti come chicchi di riso.
– Ci guardi, ci guardi pure con comodo, che intanto vado di là a fare il caffè… perchè un caffè lo prende, vero Dottore?
Lo sentivo trafficare in cucina. Distratto mi guardai intorno senza quasi vedere ciò che mi circondava.
Troppo spesso, pensavo, incontriamo persone che per fretta o superficialità o perchè ci appaiono troppo diverse da noi non degnamo d’uno sguardo. Le teniamo a distanza, le ignoriamo, inconsapevoli che dietro a un viso, a un comportamento impacciato si nascondono a volte sentimenti feriti o un animo logorato da anni di fatiche e di frustrazioni.

Sedevo nella grande cucina e guardavo il sole giocare tra i puntini di polvere sospesi nell’aria. Mentre la Bialetti sbuffava odorosi baffi di caffè, Ivo mi raccontò la storia di un padre mai stato e di una madre sempre a letto.
– La pensione era sempre più striminzita Dottore o meglio erano le medicine che crescevano, di numero e di prezzo – e mentre ricordava si passava a pettine le mani nei capelli crespi e grigi.
Fuori, sul davanzale coperto di cacche due piccioni si arruffavano per un’invisibile briciola.
– Non avevo un mestiere ma l’ape sì, non questo un altro. Così vent’anni fa cominciai a dire in giro che facevo sgomberi.
Riguardati, – mi diceva mamma – attento alla schiena chè sei un scricciolo. Fa puliid –
– Lei il bolognese lo capisce, vero Dottore? Si raccomandava che facessi attenzione, che con quelle robe pesanti è facile farsi male.
Ma io ero robusto o forse nostro Signore mi ha dato una mano perchè in tanti anni mai neppure un graffio. Così con il mio ape ho svuotato le cantine di mezza Bologna. Me la sono sempre cavata.
Non passò molto che i signori antiquari, quelli del Centro, cominciarono a venirmi a cercare, corteggiandomi. –
– Ora che ho di più di quel che mi serve sono rimasto solo… ancora del caffè? Mamma se n’è andata tre anni fa, fratelli non ne ho, figli neppure. Del resto chi se lo sarebbe mai preso uno sfigato come me? – e sorrideva, ma gli occhi mica tanto.

Quella sera tornai a casa meditando sui casi della vita, pensando a quell’ometto e cercando di ricordare una sua frase, qualcosa che aveva detto e su cui avevo tentato inutilmente di ottenere spiegazioni.
Ivo invece aveva tagliato corto.
Avevo avuto l’impressione che fosse imbarazzato, che si vergognasse.
Qualcosa che riguardava delle suore… ecco, si, delle suore! Un convento o un istituto condotto da religiose, dove lui era stato più volte, il perchè non lo so. Mi pareva che avesse parlato del
Meloncello.
Curioso mi ripromisi di fare un tentativo alla prima occasione.
Lo trovai, infatti, e proprio dove pensavo. Un piccolo istituto, una casa dove alcune suore ospitavano delle persone affette da gravi malformazioni, fisiche o psichiche.
– Certo che conosciamo Ivo – ammise l’anziana Superiora stringendo forte le mani, con un sorriso che presto si appannò di preoccupazione
– perchè, gli è successo qualcosa? No, vero? Una persona tanto a modo così generosa e disponibile! Lo conobbi in ospedale, quando ricoverò la madre, tre, forse quattro anni fa. Era molto malata e anni di trascuratezze avevano aggravato il quadro clinico. Rimase lì circa un mese e in quel frangente ebbi modo di parlare a lungo sia con lei che con il figlio. Persone cui la vita aveva dato poco di cui rallegrarsi e molto di cui dolersi, ma che tuttavia non serbavano rancore. Capisce cosa intendo, vero? –
In seguito quel buon giovane, così schivo e ritirato, venne a trovarci portando tante cose che erano della povera mamma. –
La Superiora mi raccontò così delle molte gentilezze ricevute, di quanto quel giovanotto fosse paziente e disponibile anche con le povere creature ospiti della Casa, come lei la chiamava.
– E le assicuro che con loro, di pazienza ce ne vuole tanta !
Quando però mi resi conto che mi credeva un poliziotto o qualcosa del genere, imbarazzato boffonchiai un saluto e sgombrai velocemente.
Fuori, per strada, rimuginavo. Mi sentivo confuso e i pensieri si accavallavano tumultuosi, così aggrovigliati da non riuscire a dar loro un ordine, una collocazione.
L’indomani dovetti allontanarmi dalla città per lavoro e pensai che fosse un bene. Mi sarei distratto e tutto si sarebbe sistemato.

Al mio ritorno invece bastò la vista del familiare bigliettino su una colonna della stazione per risvegliare in me l’immagine di Bini, solo in quella grande casa piena di mobili e cianfrusaglie.
Venti minuti di buon passo ed ero sotto casa sua. A quell’ora della sera la strada aveva perso l’aria pittoresca che tanto colpiva i turisti durante il giorno. Ora, buia e sporca faceva tristezza e un po’ paura. Mi strinsi nel cappotto mentre allontanavo un cagnetto che con aria speranzosa aveva preso ad annusarmi il pantalone.
– Ecco – pensai nervoso – adesso ci vorrebbe solo che ‘sto qua mi pisciasse addosso! –
Non sapevo che pesci pigliare. Era tardi, quasi le undici, e io non conoscevo abbastanza le abitudini di quell’uomo. Per esserci in casa c’era di sicuro, perchè l’ape stava lì, in un cantuccio del cortile e
Ivo non andava mai in giro senza, ma… se fosse stato già a dormire, che figura ci avrei fatto?
Dopo un attimo di indecisione e anche per cavarmi di dosso quell’animale appiccicoso come una cicles, imboccai le scale al buio.
Del resto non sapevo neppure dove fosse l’interruttore eppoi erano solo tre rampe. Trovai la porta a tentoni e cercai, smanazzando sul muro, di ritrovare il vecchio campanello. Evidentemente toccai la porta, perchè sentii uno scricchiolio e una lama di luce tagliò il buio che mi circondava.
Come in un film di Dario Argento – pensai – e spinsi il battente, dandomi mentalmente del coglione.
Meglio così – mi dicevo – se c’è la luce accesa, significa che Ivo è ancora alzato.
– Hei, di casa, c’è nessuno? Ivo… sono io… disturbo? – e intanto avanzavo esitante per il corridoio, certo che da un momento all’altro mi sarei trovato di fronte il padrone di casa in mutande o peggio. Del resto uno in casa propria ha diritto di stare come gli pare, no?
Ecco lì il canterano e gli ombrelli… l’attaccapanni nero coi riccioli di ferro…
– Hei, Bini, posso entrare? … Guardi che lei ha lasciato tutto aperto! –
Varcai la porta del soggiorno.
Anche lì luci accese, per quel che potevano fare poche lampadine da 40 watts coperte di ragnatele.
– Nel cesso, ecco dov’è, è logico, e da lì non ha potuto sentire i miei richiami. Magari adesso esce con le brache in mano ed io…
Ecco lì la madia e la grande sagrestia…
Hei, no, un momento, la sagrestia non c’era più!
Avanzai nel camerone per vedere meglio, incuriosito.
No che c’era la sagrestia, solo che era rovesciata a terra e dal corridoio rimaneva nascosta da qualcos’altro.

Continua

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