Con aria trafelata fermo un distinto signore di passaggio, e gli domando se per favore ci può indicare dove possiamo prendere un Taxi.
Questo è il momento della verità per il mio giapponese. Alcuni attimi di panico (forse più da parte del mio interlocutore che da parte mia) e poi riusciamo a capirci, con uno strano miscuglio anglo-nipponico.
Abbiamo sbagliato uscita. I taxi si trovano dall’altra parte. Ci conviene entrare in quell’edificio lì (ma non è un centro commerciale?) e girare a destra. Almeno questo è quanto mi dice il gentile sconosciuto. Lo ringrazio calorosamente e lo lascio proseguire per la sua strada. Sperando di aver capito bene, mi infilo in quello che a tutti gli effetti sembra proprio un centro commerciale dopo l’ora di chiusura. Corridoi deserti illuminati a giorno. Serrande abbassate. Nessun Punk metropolitano. Giriamo a destra e sbuchiamo nouvamente in strada. Miracolo! sei o sette Taxi sono lì, fermi, ad aspettare clienti. Ormai è fatta, penso. Ci avviciniamo al primo della fila e subito il tassista, un omino secco e occhialuto ci dà una mano a caricare le pesantissime valigie, dando prova di una forza insospettabile. Indossa una sorta di divisa, completa di cappellino e guanti bianchi. Mentre sto per afferrare la maniglia della portiera per salire, mi precede e la apre lui per me. Mi sento leggermente imbarazzato.
In giappone le compagnie di Taxi sono molte. La maggior parte fa installare sulle proprie vetture un dispositivo in grado di aprire e spalancare le portiere per i passeggeri automaticamente, con la sola pressione di un pulsante, azionabile dall’autista. Alcune compagnie hanno portiere tradizionali, ma resta comunque compito dell’autista aprirle per i passeggeri.
Una volta a bordo, recito la frase che mi ero studiato fin da prima della partenza: Hirano Jinja e itte kudasai. Il tassista pare convinto e parte subito. Al primo semaforo rosso gli porgo anche una fotocopia di una vecchia cartina con la zona che ci interessa. Ho evidenziato il nostro albergo con una freccia.
In giappone gli indirizzi sono completamente differenti dai nostri.
Non tutte le strade hanno un nome, e gli edifici non sono numerati progressivamente, ma secondo l’ordine con cui sono stati costruiti. Il sistema giapponese per identificare un luogo si basa quindi su approssimazioni successive via via più precise. Si parte dal nome della città, quindi del quartiere, poi dell’isolato, si fa eventualmente riferimento a palazzi o monumenti famosi nelle immediate vicinanze, e infine il numero civico del posto che interessa.
Puo sembrare un sistema caotico e inefficiente, ma prima di esprimere giudizi affrettati, sappiate che all’interno del giappone una lettera arriva a destinazione, vicina o lontana che sia, in un solo giorno.
Cominciamo a scivolare in mezzo al traffico (neanche troppo intenso) di Kyoto. Ogni tanto l’autista consulta la cartina che gli ho dato. Mi sembra sempre più imbarazzato, finchè, arrivati ormai in zona, ammette di non riuscire a capire dove si trova esattamente l’albergo. A quanto pare la cartina è troppo vecchia e i punti di riferimento sono cambiati. Con mio stupore, ferma il tassametro e cerca un telefono pubblico. Trovatolo, accosta il taxi, ci chiede il numero di telefono e scende per chiamare l’albergo e farsi spiegare con esattezza dove si trova. Dopo pochi minuti, rientra in macchina con aria sollevata e si infila in un dedalo di stradine secondarie. Pochi minuti dopo siamo all’albergo. Ci apre la portiera, ci aiuta a scaricare le valigie e si scusa diverse volte per il contrattempo. Lo paghiamo, ci ringrazia e se ne va. Rimango per alcuni secondi a fissare i fanalini di coda del taxi con espressione ebete, mentre si allontanano fino a scomparire nella notte.
Ritornato in me, mi dirigo verso l’ingresso dell’albergo. In realtà si tratta di una piccola ed economica (per gli standard giapponesi) pensione da 4000 yen al giorno. E’ stato un vero colpo di fortuna trovarla. Merito anche dei genitori della mia sensei che si sono fatti in quattro per trovare un alloggio per due gaijin che manco conoscevano.
In giappone il costo della vita è alquanto elevato, soprattutto per noi turisti. Un albergo in una grande città è da considerarsi economico se chiede sui 6000 yen (circa centomila lire) al giorno per persona solo per dormire. In città piccole e nei paesi si trovano naturalmente sistemazioni più a buon mercato.
Sono ormai le dieci di sera passate. Prima della partenza avevamo comunque fatto sapere all’albergo che saremmo arrivati tardi, e infatti ci stanno aspettando. Una signora sulla quarantina e alcune ragazze (le sue figlie?) ci danno il benvenuto. La signora ci mostra dove sono le stanze e quali sono le regole di comportamento nell’albergo. Evitare i rumori molesti, soprattutto nelle ore notturne. Lasciare le chiavi alla reception quando si esce. Una volta alla settimana verrà la donna delle pulizie a riordinare le camere.
Tutte cose assolutamente normali. Parla solo giapponese. Ho qualche difficoltà a capire le norme d’uso del bagno giapponese del secondo piano, ma faccio finta di niente, non credo che lo userò.
Il bagno in stile giapponese, detto Ofurò, è fondamentalmente una stanza con una grande vasca sempre piena di acqua caldissima. Ci si spoglia, ci si lava con catini o una piccola doccia prima di entrare nella vasca, che serve solo per rilassarsi.
Al quarto piano c’è una sorta di lavanderia: lavatrici e asciugatrici a moneta consentono di lavare da soli i vestiti sporchi. C’è anche lo spazio per stenderli ad asciugare. La padrona ci spiega tutto per bene. Rimango sorpreso da come sembri tutto in miniatura. Alzando una mano sopra la testa riesco a toccare il soffitto. Come mi aspettavo, anche la stanza è molto piccola. Tuttavia vi trovano posto un ampio armadio a due ante, un letto più largo di quello di casa mia e una sorta di scrivania che fa anche da mensola, sulla quale troneggia un piccolo televisore a colori. il pvimento è coperto dalla moquette. Le due camere sono separate ma hanno il bagno in comune. Dopo quasi 24 ore di viaggio, la mia attenzione è catturata totalmente dal letto.
Una volta solo, mi spoglio e mi preparo dormire. Entro nel bagno.
Fantastico. Sarà un metro per due e mezzo, e contiene doccia, lavandino e WC. Mi siedo sulla tazza del water e le mie ginocchia toccano il muro di fronte. All’altezza degli occhi una targhetta di plastica sulla parete reca un oscuro messaggio. Sono troppo stanco per cercare di tradurlo, lo farò domani. Infilo il pigiama e mi corico.
Spengo la lampada e resto qualche minuto a guardare dalla finestra.
Ancora una volta mi sembra di guardare una vignetta di un manga. Case dai tetti ricurvi in una imitazione di pagoda. Pali di sostegno dai quali si dipartono ad altezze diverse e verso direzioni apparentemente casuali spessi fasci di cavi elettrici. Una insegna luminosa vagamente pacchiana mi informa che all’angolo c’è una tavola calda aperta fino a tardi. Rimango come affascinato. Sebbene siano tutte cose normalissime, una sottile differenza, che trova la sua espressione più evidente nelle scritte in ideogrammi delle insegne, ma che resta per la maggior parte percepibile solo a livello inconscio mi fa capire fin nel profondo che mi trovo in un paese diverso da quello in cui sono sempre vissuto. Sono in Giappone! L’idea mi colpisce finalmente come una mazzata. Percepisco quasi fisicamente l’enorme distanza che mi separa da Modena, dall’Italia, da problemi e occupazioni quotidiane che perdono ora di senso, private del loro contesto. Il senso di libertà che provo mi stordisce. Era molto, molto tempo che non mi sentivo così bene. Mi copro col piumone e le lenzuola. Sanno di fresco. Mentre scivolo nel sonno, cullato dai rumori di risacca del traffico, un sorriso inconsapevole mi si disegna in volto. Mi addormento, contento come un bambino.
Diario di viaggio – 3
3) – Continua
Massimo Borri