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Un abbandono

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Un abbandono

Finito. era veramente, disperatamente tutto finito. Così, alle due del pomeriggio, in mezzo al sole e alla gente che passava, davanti al suo vecchio scalcinato portone.
Quante volte lui l’aveva accompagnata a casa, quante volte si erano dati l’ultimo bacio nell’atrio; adesso guardava per terra, impegnato a trovare le parole giuste per lascairla, a momenti quasi compiaciuto della sua logica eloquenza.
Era meglio così: l’aveva amata tanto, non sarebbe stato giusto andare avanti per affetto, per inerzia, per… Ma lui immaginava una nuova storia per loro, su altre basi: “Senza di te non riesco a vivere, ho bisogno della tua presenza, del tuo appoggio”, un modo elegante per driblare la stantia formula “restiamo amici”? No, lui probabilmente ci credeva, credevo, fosse possibile ottenere tutto, comprensione, sicurezza – senza l’amore. Era così limpido, così sereno, così razionale nei suoi discorsi, nelle matematiche conclusioni: il mondo diventava nelle sue parole civile e ordinato come il diagramma di
Eulero-Vell.
Solo lei turbava quell’armonia, lei non era altro che un guazzabuglio di singhiozzi e sconnesse rimostranze, un puntino agitato e disordinato nell’infinito cartesiano. E si sentiva quasi in colpa per questo, si vergognava, ma non riusciva a smettere la sua scenata.
“Anch’io ho pianto tanto” mentiva lui, abbracciandola con fare protettivo “ma passerà, vedrai, credimi…”.
Forse fu in quel momento che lei vide quel piccolo, impercettibile sorriso di sollievo, salito irrefrenabile alle labbra del suo ormai-quasi-ex-ragazzo. Poteva bastare, era rimasto lì abbastanza, l’aveva cionsolata per quanto aveva potuto.
Finito, era veramente finito tutto; la gelosia, i musi, le feste del sabato sera perse… ma no, cosa stava pensando, non doveva essere così egoista. Lei gli sarebbe sicuramente mancata. L’avrebbe chiamata senz’altro. Poteva restare tutto come prima, in fondo; se lei fosse stata più ragionevole, più matura, se… La salutò con parole gentili e affettuose. Lei cercava di rispondere a tono, ma si sentiva stranita e come ubriaca. Le sembrava di non provare più nessun sentimento.
Lentamente salì in casa, trasognata; telefonò a un’amica, ripetendo frasi sentite nei film, lette sui giornalini. L’amica rispondeva luoghi comuni con voce imbarazzata e stupita.
E dopo? Dopo sarebbero venute telefonate di lui finto-allegre e brevi come pugnalate; pianti, rabbia, odio, uscite con le amiche, “bevici su e non ci pensare”, e “chiodo scaccia chiodo”; quindi altri ragazzi, storie identiche e pallide, altri abbandoni, altre frasi fatte. Lei si sarebbe guardata in giro alla ricerca del suo caschetto nero, dei suoi occhi; per anni avrebbe trasalito per un profumo simile al suo, l’avrebbe sognato tornare da lei amareggiato, pentito e traboccante di passione.
Poi, senza che se ne accorgesse, quell’abbandono avrebbe cessato di tormentarla e sarebbe svanito, in mezzo a momenti e ricordi della sua vita; e avrebbe sorriso a quella ragazzina in lacrime davanti a un portone, con compassione e affetto.

Lorenza C.

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