Seconda puntata del diario di viaggio in Giappone.
L’aeroporto di Osaka è enorme, quattro piani, e quasi deserto. Ma dove sarà tutta la gente? Dopo interminabili corridoi, arrivo al controllo immigrazione. Ci sono due sportelli separati: uno per i viaggiatori stranieri e uno per i giapponesi. Io e Mauro siamo i soli a dirigerci al primo dei due. L’impiegata pare preoccupata quando vede che non abbiamo ancora compilato un modulo che ci era stato consegnato in aereo. Per tranquillizzarla, mi rivolgo a lai in giapponese e compilo allegramente il modulo ricopiando a mano complicati ideogrammi, mandandola così in visibilio. Evidentemente un gaijin che scrive ideogrammi è ancora più sorprendente di uno che il giapponese lo parla. Quasi roba da X-Files. Ci prendo gusto e butto lì alcune amenità sul viaggio, sull’aeroporto di Milano di cui lì hanno solo sentito parlare, e sì, la lingua giapponese l’ho imparata per hobby.
Basta poco per farli contenti…
Salutiamo la sempre più sconvolta impiegata e usciamo dall’aeroporto.
Per arrivare alla nostra destinazione, Kyoto, bisogna prendere il treno. Fortunatamente un apposito convoglio collega direttamente l’aeroporto di Osaka con Kyoto. E’ stata una buona idea quella di chiedere più informazioni possibili all’insegnante di giapponese prima della partenza. La stazione è praticamente attaccata all’aeroporto, non c’è neanche bisogno di scendere in strada. Prima di fare i biglietti trovo un telefono e comunico a casa che sono arrivato sano e salvo. Fa uno strano effetto riuscire a parlare subito con persone in realtà così distanti che ci vorrebbero altre dodici ore d’aereo per raggiungerle fisicamente. Mi soffermo un attimo a pensare come il telefono abbia davvero cambiato il mondo.
All’impiegato delle ferrovie che mi porge i biglietti chiedo anche dove devo salire. Dopo che me lo ha ripetuto diverse volte, mi accorgo che c’è scritto anche sul biglietto: banchina, numero della carrozza, numero del sedile (sono posti prenotati). Mi dirigo con largo anticipo sul posto, a scanso di sorprese. Il treno è già lì, fermo. Sulle fiancate delle carrozze un display a LED conferma che è diretto a
Kyoto. Ogni pixel può assumere tre colori differenti. Noto che il binario finisce lì: è proprio un treno-navetta. I sedili sono rivolti nella direzione contraria a quella di marcia una volta in moto.
Fortuna per i passeggeri che vengono da Kyoto… Ma un momento, cosa succede? Mentre il treno è ancora vuoto (non si può salire finchè le donne delle pulizie non sono passate in ogni carrozza per vedere se tutto è in ordine) i sedili si girano automaticamente e all’unisono.
Però… L’ora della partenza si avvicina, e si può finalmente salire.
Mentre sposto i miei venti chili di valigia, benedico mentalmente gli ingegneri giapponesi per aver costruito binari e banchina in modo tale che non ci sono scalini da salire per entrare in treno. Anche la porta
è più larga di quelle a cui ero abituato in Italia. Si apre e chiude automaticamente scorrendo all’interno della fiancata. Trovo il posto e mi siedo. I sedili sono comodi e imbottiti, mi ricordano quelli del cinema. Sono un po’ stretti. Sarà anche che siamo carichi come muli.
Il treno parte silenziosamente e in perfetto orario. So che per arrivare a Kyoto ci vogliono 75 minuti. Faccio un rapido calcolo mentale, in modo da sapere più o meno a che ora dovrò incominciare a raccogliere i bagagli per scendere. Mi preoccupa il fatto di sbagliare stazione. Mentre mi ripropongo di restare concentrato nonostante la stanchezza, un altoparlante inizia ad annunciare in giapponese ed inglese quale sarà la prossima fermata. Le parole pronunciate sono le stesse che scorrono su un visore LED ben visibile all’interno della carrozza. Sono piacevolmente sorpreso. Posso smetterla di fare calcoli mentali e di cercare di capire dove siamo da quello che vedo fuori dal finestrino, e posso invece rilassarmi e godermi il viaggio. La voce dell’altoparlante continua imperterrita a snocciolare un’informazione dietro l’altra; ad ogni fermata ripete quale sarà la successiva.
Quando stiamo per arrivare all’importante nodo ferroviario di
Shin-Osaka, vengono addirittura elencati i cambi favorevoli per recarsi a Tokyo e un altro paio di destinazioni, compreso il numero della banchina dalla quale partono. Ora sono davvero impressionato.
Intanto, la tabella di marcia è rispettata con precisione assoluta.
Devo lottare strenuamente per non cedere al ritmo soporifero del treno. Settantacinque minuti esatti dopo la partenza, arriviamo alla stazione di Kyoto. Nonostante la stanchezza, mi sento allegro: finora
è andato tutto liscio come l’olio.
Come la Legge di Murphy esige, cominciamo ad avere qualche problema.
La stazione di Kyoto è molto grande, e non assomiglia affatto al tipico modello di stazione ferroviaria italiano: ricorda più un aeroporto. Corridoi enormi e lunghissimi si allungano e si intersecano da tutte le parti. Alcune sezioni sono chiuse per lavori in corso.
Dobbiamo trovare l’ingresso per la metropolitana, che dovrebbe trovarsi proprio all’interno della stazione. Più facile a dirsi che a farsi. C’è finalmente un sacco di gente. Dopo lunghi minuti di panico e di fatica (la prossima volta porto una valigia più piccola, lo giuro) e dopo aver consultato piantine e interrogato giapponesi frettolosi, ci imbattiamo finalmente nel cartello chikatetsu iriguchi.
Prima di passare ai cancelli dobbiamo fare il biglietto. Memori dei consigli preziosi del sensei, ci avviciniamo con fare circospetto alle venditrici automatiche. hanno un aspetto complicato: file di pulsanti colorati con tabelle scritte in ideogrammi sconosciuti. L’unica cosa chiara sono i numeri arabi. Nell’insieme mi ricordano terribilmente le consolle di comando dell’Enterprise nella vecchia serie TV di Star
Trek: file di pulsanti illuminati e multicolori privi di significato.
Osservandole con maggiore attenzione, però, si rivelano sorprendentemente semplici e pratiche. Niente più coda allo sportello, basta controllare sulla tabella quanto costa raggiungere la destinazione voluta, inserire il denaro in monete o banconote nella macchina. Tutte danno il resto esatto.
Il biglietto è poco più grande di un francobollo, e ai cancelli di entrata bisogna infilarlo in un’altra macchina che lo vidima e apre il cancelletto. Anche qui un visore a LED mi apostrofa con un deferente arigatoo gozaimasu.
Fortunatamente Kyooto non è una metropoli ultramoderna come Tokyo o
Osaka, e la metropolitana ha una sola linea. Impossibile sbagliare.
Comincio a sentirmi talmente stanco che mi pare di essere in viaggio da un secolo. Le luci al neon fanno la loro parte. A lungo andare mi hanno sempre dato un insolito senso di straniamento. Forse ci vorrebbero lampade con uno spettro più simile a quello della luce solare. Mentre la mente si trastulla con questo e altri pensieri, arriva il convoglio. Puntuale. Sollevo la valigia e mi avvicino. La gente che deve salire lascia prima scendere i passeggeri giunti a destinazione. Anche qui niente gradini. Ci sediamo all’interno. Mi guardo intorno e mi sembra di stare in un manga. Un sarariman con un completo spiegazzato dorme con la testa reclinata, mentre stringe al petto la sua ventiquattrore come fosse la cosa a cui tiene di più al mondo. Uno studente delle superiori con la tipica uniforme scura finge di armeggiare col suo Walkman e di sottecchi mi osserva come fossi un alieno. Chissà che faccia stravolta mi ritrovo in questo momento.
Il convoglio parte con una notevole accelerazione. Tutti i passeggeri sembrano sonnecchiare. Comincio ad avere sonno anch’io. Fortunatamente in circa quindici minuti arriviamo alla fermata dove dobbiamo scendere. Per tutto il tragitto il solito altoparlante ha continuato ad annunciare quale sarebbe stata la fermata successiva. L’efficienza della rete di trasporti giapponese non finisce mai di stupirmi.
Scesi dal convoglio, ci ritroviamo in un altra stazione. Tutto sotto controllo. E’ la stazione di Kitaooji, e secondo quanto ci ha detto il sensei, il deposito dei Taxi dovrebbe trovarsi proprio di fronte all’uscita. Baldanzosi ci avviamo con passo sicuro, per accorgerci dopo un po’ che la stazione è molto più grande di quanto sembrasse sulla carta. Probabilmente ha diverse uscite, e si estende per la lunghezza di un intero isolato. Gli enormi corridoi illuminati a giorno sono completamente deserti e pulitissimi. Chissà perchè mi aspetto che da un momento all’altro una banda di punks metropolitani sbuchi da in fondo al corridoio brandendo mazze da baseball.
Ovviamente non sbuca proprio nessuno.
Dopo alcuni frustranti minuti, imbocchiamo un corridoio capitanato da una promettente insegna deguchi. Finalmente usciamo all’esterno. Mi rendo conto che finora siamo sempre stati al chiuso o al coperto.
L’accoglienza potrebbe essere migliore. E’ già buio (sono le nove di sera) e dal cielo cade una pioggerellina insistente. L’uscita che abbiamo scelto porta su una stradina laterale completamente anonima.
Di Taxi nemmeno l’ombra. Comincio ad imprecare sommessamente tra i denti. Mentre cammino per la strada deserta, bagnato dalla pioggia e alla ricerca di qualcuno a cui chiedere dove si sono cacciati i maledetti taxi, mi rendo conto che nonostante tutto non mi sento affatto a disagio. Sono stanco, ho sonno e mi sto preoccupando un po’ per via del taxi, ma non mi sento ugualmente a disagio. E’ come se avessi sempre vissuto qui e me ne fossi solo dimenticato. E’ una sensazione molto buffa e strana, che mi coglie di sorpresa. E’ l’ultima reazione che mi sarei aspettato. Ma… Ecco, finalmente un passante! Ehi! Sumimasen!
2) Continua
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