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Le scale

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Le scale

Alle cose che ci sono

e a quelle che non ci sono più

Ero perso. Scendevo le scale lentamente, tenendo una mano appoggiata contro il muro, e l’altra, contratta, sullo stomaco. La testa si stava facendo sempre più pesante, e mentre avanzavo, sentivo i pensieri farsi più confusi. Un suono ovattato, pulsante, riempiva l’aria, e gli occhi iniziavano a chiudersi. Le gambe erano sempre più difficili da muovere, e ogni singolo passo, ogni scalino, era un lungo e doloroso sforzo. Ma continuavo a scendere.

Pensavo a lei.
Pensavo al suo viso, agli occhi scuri, ai suoi capelli, e poi muovevo un po’ la mano sinistra, alzavo la gamba destra, la spostavo in avanti, e, lentamente l’abbassavo fino a che non toccava lo scalino successivo. Il buio era quasi assoluto, e, in fondo, non faceva molta differenza.
Respiravo, mi sforzavo di aprire gli occhi, mi muovevo.
Lei, nella mia mente, sorrideva. Aveva un maglione bianco, il viso leggermente inclinato sulla destra. Uno sguardo sereno, calmo.
Parlava, ma io non sentivo. Muoveva le mani, disegnando nell’aria incomprensibili tratti, poi si fermava un istante, come per ascoltare una risposta che non riuscivo a dare. Prendeva il bicchiere, si versava del vino. Sorrideva. Era felice.

Cominciavo a sentire freddo. Non sentivo più bene la ruvidità del muro sulla sinistra. Forse la mia mano sanguinava, sfregata con troppa forza contro la parete. Forse stavo lasciando, lungo le scale, al buio, una scia di sangue, che qualcuno, poi, avrebbe visto e seguito, travandoci alla fine me, disteso.
Forse mi ero fermato per un po’. Forse ero fermo da minuti, immaginandomi di continuare a scendere le scale.
Respirai con più forza, cercando un barlume di lucidità nella nebbia che avvolgeva la mia mente.

Lei intanto si era messa a mangiare. Spezzò il pane e me ne allungò una parte. Si girò di lato, salutò qualcuno che non vedevo, e poi si portò alla bocca una forchettata di spaghetti. Ogni tanto parlava, ma per me quello era un film senza audio, con i colori che stavano lentamente virando al rosso.
Non c’era molta luce. Un paio di candele sul tavolo, una lampada di lato. Il suo viso era di una dolcezza che non ricordavo, e sembrava volermi dire di più di quello che riuscivo a capire. C’era qualcosa che lei voleva dirmi, ma io non riuscivo a sentirla.

La mia bocca era completamente asciutta. Sentivo la lingua secca e dura cercare nell’aria un sollievo che non le era dato trovare.
Tossii. Mi toccai il viso con la mano, ma non sentivo quasi nulla. Non vedevo più niente. Neppure ad un palmo dagli occhi la mia mano riusciva ad essere distinta dal fondo nero, dall’ombra totale che mi avvolgeva. Provai a parlare, ma non emisi un solo suono. La gola, arsa da un’improbabile sete, mi faceva male, ma quel dolore non era che un punto in una distesa più ampia, di cui ancora non percepivo i limiti.

Lei mi guardava. I suoi occhi esprimevano un sentimento che non riuscivo più a riconoscere. Alla fioca luce delle due fiammelle, vidi la mia mano raggiungere la sua, darle una piccola scatola, e una busta. Lei sorrideva. Mi sembrava di non potere resistere oltre.
Qualunque cosa provassi per lei, qualunque cosa, era al suo apice. La luna era dentro di me, il mare stesso al tramonto, i prati, tutto. Le fiammelle ritagliavano sul suo viso figure antiche; il vino, nel suo bicchiere, era un lago circondato da monti di vetro, che al tramonto rifulgevano di luce rosa.
La busta si aprì, lei lesse. Chinò il capo un istante, rialzò lo sguardo. Disse lentamente qualcosa, aprì le braccia come se volesse richiamarmi a sè.

Mi ero fermato un’altra volta. Forse più a lungo della prima. Le gambe non rispondevano più. Non capivo neppure se ero ancora in piedi, oppure se ero piegato in qualche modo in avanti. La destra sempre contratta contro lo stomaco, era l’unica certezza, il baricentro stesso di tutto l’universo. Ed io, come un giroscopio, ruotavo nella mia mente senza tregua, senza sosta alcuna, sentendo conati di vomito risuonare lontano, senza sapere se fossero parte di me, ricordi, o suoni esterni.
Aprii la bocca, respirai. Respirai ancora, cercando di risvegliare i polmoni, come rattrappiti e doloranti, addormentati. Sentii qualcosa.
Sentii la mano sinistra, percepii il freddo del muro, i muscoli delle mie gambe rannicchiate protestare selvaggiamente, la mia testa urlare.
Sentii l’odore di cibo di quel posto. Sentii un calore forte provenire da qualche luogo intorno a me. Ricordai l’uomo caduto dal quarto piano che, illeso ma svenuto per l’urto, morì affogato in una pozzanghera fonda pochi centimetri. Ricordai.

Vidi lei che gridava, senza emettere un solo suono. La vidi cercare di alzarsi in piedi di corsa, e poi vidi una rosa rossa ricamare il suo bianco maglione, e colare sulla tovaglia. Udii, primo suono in tutto questo sogno, uno sparo, poco più di un palloncino che, bucato da uno spillo, esplode in un altra stanza. Vidi gente correre di fronte a me, vidi qualcuno cadere, qualcuno rimanere impietrito al suo posto. Udii un secondo suono, più forte del primo, e mille vetri ricamare l’aria intorno a me, tavoli che si spezzavano contro muri e persone, bottiglie che come proiettili si schiantavano contro il pavimento.
Vidi che tutto cambiava rapidamente prospettiva. Vidi che il mondo si avvicinava a me, che una porta veniva aperta, un’ultimo sparo, e il buio che prendeva il sopravvento.

Forse ero ancora vivo. Forse già morto. Ripensai al suo sorriso, ma non riuscii più a richiamarlo.
“Sono già morto”, dissi, senza voce.
E ripresi a scendere.

Marco Giorgini

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