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Box of moonlight

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Box of moonlight

di Tom DiCillo

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Favola moderna alla “Forrest Gump”, per intenderci. Al (interpretato dal mitico John Turturro) è a capo di una squadra di operai addetti ai montaggi elettrici di un’improbabile industria sperduta in mezzo ai boschi di chissà quale stato U.S.A. Egli è freddo, meccanicamente abitudinario e poco inclina alla compagna e allo svago. Quando telefona a casa interroga il figlio sulle tabelline e sembra illuminarsi solo quando racconta alla moglie che il lavoro è in perfetto orario. Il risultato di tutto ciò? Ignorato dai lavoratori (e dal figlio), decide di rimanere fuori casa anche dopo che il progetto
è bruscamente saltato e gli operai, contenti, se ne vanno. Gli salta in testa di cercare un laghetto che da piccolo gli ha dato qualche emozione, ma lo trova abbandonato ed inquinato. Qualcosa gli cresce dentro. Il malessere è definitivamente fuoriuscito dallo stomaco e gli
è arrivato al cervello, tanto da fargli vedere gli avvenimenti al contrario in una visione che diventerà il termometro del suo stato d’animo.
Sulla via del ritorno incontra un ragazzo piuttosto originale. Vestito come Davy Crockett ha la macchina in panne e trascina Al fino a “casa” sua, una mezza roulotte parcheggiata all’interno di un boschetto che è diventato “suo”. I giorni che trascorrerà con lui, dopo un imbarazzante inizio tanta è la differenza degli stili di vita dei due protagonisti, sono all’insegna della libertà e qui, dopo un incontro con una “hot-liner” fallita, ritrova il se stesso che non credeva più.
Le due diverse personalità danno molta vivacità al film, alcune scene sono molto divertenti e profonde allo stesso tempo. La definizione dell’immagine e la maniacale cura dei dettagli rendono “Box of moonlight” una piuma leggera che ci scorre davanti. Il paragone alle atmosfere di “Forrest Gump”, nonostante le differenze d’intenti e contenuti, è più che legittimo. Turturro è perfetto e basta mentre Sam
Rockwell, che interpreta l’esplosivo Kid, è un po’ troppo teatrale ed esce dai limiti.
Quando un regista americano salta la barriera del commerciale lo apprezzo sempre e questo film merita molto, seppure praticamente ignorato dalle premiazioni.

Michele Benatti

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