L’armadietto di matteo era il nostro sogno di carta – gioco ad incastro – mosaico inciso a gioco visivo. Tutti, si intende, avevamo qualche foto ritagliata e incollata (per caso) sul nostro armadietto, come gianluca, due polaroid di daniela, la penultima ragazza, e la mattina accarezzava il ricordo ripetendo il suo volto – la foto di destra -, dove daniela reggeva (con l’indice) la torre di Pisa e rideva e rideva mentre luca scattava, o federico, con il suo poster di vasco, rossi vasco che baciava un gattino (e chissà dove lo aveva trovato), o raffaele, con i ventidue giocatori del Lecce schierati in duplice fila. Non matteo. Inquadrate con geometrica precisione, con scientifica planimetria, si intersecavano una trentina di immagini ad alto contenuto pornografico, suddivise per costanti di penetrazione, with le migliori starlette americane degli ultimi anni – e quell’insolito accostamento, quel compenetrarsi metodico di tutti gli spazi, riusciva a evidenziare i dettagli latenti di ogni singola immagine. Ci aveva messo due mesi a ultimare quell’opera, ed ora, per tutti, matteo era il nuovo Brunelleschi, la tradizione (umanistica) italiana che si rinnovava nel tempo. Saremmo rimasti per ore a studiare quella composizione, con tutte quelle attrici, con tutte quelle gambe e quei seni, con tutti quei momenti di amore inventato, ma matteo non era socievole, non ti lasciava guardare, e in quei tristi & brutti & infiniti momenti in cui una donna ti mancava davvero potevi solo rubare con uno sguardo fuggente quell’insieme di forme, prima che un cigolio meccanico ti celasse i suoi sogni di carta. matteo lavorava al minuto e mantenimento, passava la sua giornata a verniciare un qualcosa qualsiasi o a sgorgare dei cessi, e alla sera non aveva voglia di scherzare.
salvatore libero in compagnia. salvà era un ragazzo non tanto alto ma buono, tanto che a tutti pareva che la (sua) statura fosse inversamente proporzionale al (suo) infinito carattere. Accettava questo primo mese di caserma, con tutti gli svantaggi che ne derivavano, con uno spirito positivo, non con quella rassegnazione che ci aveva accompagnato nei primi momenti: salvatore faceva la branda a matteo, salvatore era sempre di guardia, salvatore subiva le schiumate e gli scherzi dei nonni, eppure non lo vedevi mai triste o arrabbiato, salvà aveva sempre un sorriso, era tranquillo. Una domenica mattina mi sostituì in un servizio, “lo faccio io” mi disse d’un tratto, sorridendo, permettendomi di tornare a casa. Così.
federico fresco fresco ingegnere, a cui (per qualche ignoto motivo) era stato rifiutato il servizio civile. Lo avevano assegnato alla fureria, e noi tutti contenti, perchè conoscere un furiere significa ottenere, permesso o licenza, qualche grande favore. federico era silenzioso, e (a volte) i suoi ventisette anni non gradivano gli scompensi infantili di alcuni di noi. Passava gran parte del tempo disteso sulla branda ad ascoltare cassette, e (que)gli accordi che scivolavano indistinti sino alle nostre orecchie, blues or jazz, sembravano appassionarlo davvero, quasi fosse quella la vita, non gli integrali e le radici degli ultimi anni – tanto che eravamo intervenuti in quattro la sera che gli avevano ramato lo stereo, (in quattro) tra lui ed enrico che (infine) era chiaro che era stato quest’ultimo.
due occhi azzurri fosforescenti che ti scrutavano da lontano, sempre pronto a stuzzicarti e a tenerti compagnia nei momenti difficili.
Uscivo spesso con lui, cinema o birra, ma adesso era in Sicilia,
Vespri Siciliani, due mesi lontano, l’unico della nostra camerata a partire, e la sua branda era nuda e persino un po’ triste, un cubo rifatto.
ragazzino di diciassette anni che aveva chiesto l’anticipo, un ragazzino che parlava solo di Lella e di calcio, di calcio e di Lella, che non finiva mai di parlare di Lella e del calcio, anche quando gli davano un Fal o un Garant sulle spalle parlava di calcio e di Lella, e
(sono sicuro che) quando non poteva parlare pensava a Lella e al calcio, e la notte, sì, anche la notte lui sognava di
ufficiali e il suo amico più grande, nel senso stretto della parola, nonchè compagno di branda, era massimo, cuoco alla mensa, e la sera mi raccontavano cosa avevano sputato sul sugo di quel colonnello o sulla cotoletta di quell’altro maresciallo, anche se raffaele ricominciava
(sempre) a parlare di Lella e di calcio, di calcio e di Lella. massimo non poteva uscire, perchè i cuochi della mensa ufficiali erano pochi e finivano tardi & al rientro dalla libera uscita lo trovavamo sempre a dormire, esausto, dopo una giornata passata ai fornelli, un altro giorno di quei 365 & raffaele lo svegliava per raccontargli dell’ultima telefonata con Lella, lo svegliava e lo scuoteva fin a quando (max) non scendeva dalla branda e si metteva a sentirlo, sognando a sua volta una qualche donna-bambina che (sembrava) non aver posseduto abbastanza.
destra, dormivano andrea ed enrico, un nucleo poco raccomandabile – i nostri quartieri spagnoli – anche se rendeva la camerata tranquilla, perchè nessuno e nessuno sarebbe venuto a disturbare o a rubare qualcosa. enrico era congedante, con tutti gli annessi del caso.
Riforniva di fumo mezza caserma, nonchè di eroina due ragazzi delle trasmissioni, di cui uno fu trovato in over una mattina di marzo, quando enrico si era già congedato, e solo il capitano (me.) riuscì a salvarlo. Anche enrico era libero in compagnia, dopo nove mesi passati in infermeria, come aiutante di sanità, sospeso per le urine con tracce di aschis, after che si era fatto sorprendere a rubare medicinali. Non era mai lucido di sera, e dovevamo stare attenti a come comportarci.
all’officina – emigrato giovanissimo in Germania e tornato solo per il servizio. andrea non poteva tornare al suo nuovo paese, a trovare amanti e parenti, non se lo poteva permettere, mancava il contante, la diaria serviva (tuttalpiù) per qualche disco, ogni tanto e di sabato, scavalcando la cinta senza essere visto. Non sapeva nè leggere nè scrivere, come un altro ragazzo della pizzeria, e io che non volevo crederci quando me lo aveva raccontato, com’è possibile ancora oggi? –
1995 d. C. – mi ero chiesto, e invece è possibile e sono tanti come lui, e come farei nelle sue condizioni?, ma a lui non importava poi tanto, che infine ci aveva fatto l’abitudine, anche se la cosa
(qualche volta) lo umiliava sul serio & allora federico, federico d’un tratto, lui ingegnere l’altro ignorante, un pomeriggio si era arrabbiato e aveva cominciato a insegnargli, che analfabeti non era proprio possibile, e da allora due volte alla settimana, a insegnargli le A le B le C e le altre lettere che si mettono insieme, a formare parole emozioni e immagini, finalmente insegnargli a leggere e a scrivere, due volte a settimana con matita e quaderno, e noi tornati in un tratto bambini, i bambini un po’ uomini di Edmondo de’ Amicis, un secolo e nulla che cambia – garrone e precossi, derossi e garoffi – (bambini) a tifare le sillabe stentate che andrea interpretava dalla gazzetta di lele,
(uomini) a integrare quello che altri si eran dimenticati di insegnare.
nella seconda branda di destra, sotto a daniele, e lavorava in maggiorità con valentino, un caporale della camerata di fronte che stazionava perenne da noi. Portava il suo televisore portatile e tutti e due, sotto a daniele, stretti stretti su quella piccola branda, stendevano le gambe a studiare quel minimo schermo, come se il rapido avvicendarsi di immagini potesse cancellare un’altra giornata passata in caserma, un lungo giorno lontano da casa, esiliato dalle tue sacre abitudini – un altro giorno remoto dal tutto.
nostra camerata. Abitava a due chilometri dalla caserma e lavorava al
Comando Brigata nella segreteria del generale. Insegnava a giocare a tennis alla figlia del comandante e scattava fotografie quando arrivava un personaggio importante, sindaco o prefetto. Era un tipo tranquillo, come salvà, ma quel tipo di militare, without guardie e servizi, non avrebbe innervosito nessuno.
a servire caffè o pacchetti di merendine & appena rientrava dallo spaccio, undici p.m., chiamava al cellulare la sua ragazza, e normalmente litigavano e si lasciavano, e così per tutta la settimana, e nella camerata d’improvviso si faceva silenzio, buio e silenzio, persino valentino spegneva la sua televisione, anche federico abbassava il suo walkman, e tutti ad ascoltare cosa due immagini potessero dirsi a quell’ora di notte, sussurri e risposte, e tutti a pensare prima o poi il cellulare lo compro anch’io, così potrò telefonare alla mia bella quando e come vorrò.
dormiva infine saverio, armiere di compagnia. Due mesi prima gli era morto il fratello, e da allora non era più stato lo stesso, nessuno poteva scherzare con lui. Quando non consegnava elmetti o fucili, maschere NBC o caricatori, dormiva, dormiva e dormiva, dormiva anche in orario di servizio o quando era comandato di chiusura. Alle otto, quando tornavi dallo spaccio, eri sicuro di trovarlo in branda, con le coperte tirate, a dormire o a guardare il soffitto, aspettando il rientro di raffaele o la telefonata di antonello, sino a quando non arrivava il tenente di turno urlando “ARMIERE! ARMIERE!” & andava bene se non era consegna. Quando era morto suo fratello era impegnato in un campo in Sardegna. Non lo avevano fatto tornare.
Questa, a un certo istante della naja, era la mia camerata, perchè la camerata è sempre in movimento, quasi come la vita, qualcuno che arriva e qualcun altro che si congeda, e ti lascia solo piccole immagini – istantanee riflesse – che come la vita andranno disperse o smarrite se non le fermerai su un foglio qualsiasi.