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Storia triste

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Storia triste

Questa è la storia molto triste di uno sfortunello di nome Bo, che nella sua lingua significa “colui che nacque di venerdì 17, quel giorno che si ruppero tutte le saliere e gli specchi e ci furono 13 incidenti d’auto così vale dappertutto come portasfiga”. Bo abitava in un villaggio molto povero nel deserto di Legolandia. I suoi abitanti non avevano nulla da mangiare, ed erano ancora vivi perchè all’ora di pranzo pensavano sempre che al mondo c’è gente che muore di fame e loro un po’ perchè si vergognavano di essere più fortunati, un po’ perchè a furia di pensare ad altro si distraevano, non mangiavano no no no e così la vita continuava. Il padre di Bo lanciava freesbees usati, la madre raccoglieva monetine dai piattini dei bagni pubblici.
Una vita infame. Bo voleva cambiare, voleva andare per il mondo a far fortuna. Fece un fagotto vuoto (aveva messo dentro tutto quello che aveva da mangiare), e dopo aver salutato i genitori se ne andò. Sulla veranda della casa, suo padre teneva la moglie sottobraccio. Quando il figlio era ormai una macchiolina lontana all’orizzonte, disse:
“Secondo me, quello lì non torna. Io lancio freesbees, ma ho fatto un corso d’aggiornamento sui boomerang, e lo vedo subito se uno non torna”. La madre scoppiò a piangere, poi emise un grido: “Boooooo!”.
Qui la critica è divisa. Siccome lei lo disse e non lo scrisse, non si sa ancora se intendeva rispondere al marito (boh!) o chiamare il figlio (Bo!). Ma torniamo a Bo, che intanto era arrivato alle porte della città dopo un viaggio lungo 11 righe. Ai bordi della strada c’erano signorine in abiti succinti.
Una lo accolse: “Ciao cocco!”. Che gentilezza, pensò, e che grado di civiltà: non danno importanza a mode e vestiti, anzi quasi non ne portano.
“Allora, vuoi fare un giro? Come ti chiami, bello?”
“Bo”
“Ehi dico vuoi scherzare? Credi che io abbia tempo da perdere? Allora, deciditi… coso… come cavolo ti chiami?”
“Bo, signorina”
“Guarda che per me il tempo è denaro, e se me ne fai perdere ancora è come se mi derubassi. Ladro! Ladr!”. La signorina si agitò. Bo preferì scappare, nelle orecchie ancora quella parola: ladro. Però, che sfiga: aveva beccato una puttana del sindacato. Sono le più assatanate, ma lui non lo sapeva. E non sapeva tante altre cose.
Stava ancora camminando pensando a quella parola nuova che gli avevano affibiato, quando incontrò un uomo.
“Qual buon vento la porta, forestiero? Qual’è il suo nome?”
“Bo, signore, sono un ladro. E comunque non sono venuto in deltaplano”.
L’uomo lo squadrò sospettoso, prima di eruttare. “Molto furbo.
Non faccia giri di parole con me. Scommetto che lei è un politico. Mi lasci in pace, non vede che ho del lavoro da fare?”.
Bo se ne andò, ancora una volta pensoso.
“Non sapevo di essere tutte queste cose. Forse si tratta di due dialetti diversi, e ladro e politico vogliono dire la stessa cosa. Sì, sarà senz’altro così”. Ora doveva trovare un lavoro, ma non fu difficile. Si presentava dappertutto come ladro e politico, per essere capito in entrambi i dialetti, e a uno così sincero era difficile dire di no. Ma Bo era sfortunato dalla nascita e dall’inizio del racconto.
Prima fece l’addestratore per gatti da riporto, per conto di un macellaio, ma fu vittima di coincidenze nefaste. Innanzitutto, la concorrenza usava pantere. E a un certo punto i suoi gatti si rivoltarono contro di lui perchè si mangiava tutte le salsicce della paga (aveva provato una volta a mangiare e non era più riuscito a smettere). Fu l’ammutinamento del Bo, che divenne un film e un opuscolo del WWF per insegnare nelle scuole che la natura va rispettata sennò si vendica. Bo fece anche l’attaccapanni in un albergo per nani, ma si ruppe un menisco e non riuscì più a stare in ginocchio. Fu costretto ad andarsene tra le lacrime della figlia del padrone, che arrivava all’altezza giusta per sostenere i primi esami orali della sua vita (aveva sette anni). Bo l’aveva sempre aiutata nello studio. Nello studio del padre, che era il luogo più appartato dell’albergo. Fece anche il lanciatore di noccioline allo zoo per conto terzi, ma non aveva il muscolo e arrivava sempre al fossato, mai alle gabbie. Fu licenziato in tronco. Finchè un giorno, disperato, inciampò in uno stecchino di ghiacciolo ed ebbe una grande intuizione che avrebbe cambiato il corso della sua vita. Da uno stecchino ricavò dieci stuzzicadenti (qui invece la critica è concorde nel far risalire al background familiare la tendenza al riciclaggio). In quattro anni
Bo era il maggior produttore mondiale di stuzzicadenti, ed aveva già subito vari attentati dai giapponesi, prima con uno zampirone avvelenato, poi con un samurai appallottolato che scoprì quando tentò di farsi una spremuta e sentì il limone lamentarsi sanguinando.
Infine, con due bombe H nello sciacquone che però erano entrate in avaria. I pezzi di ricambio li avevano soltanto a Tokyo, per cui non le fece neanche aggiustare. Era ormai ricco e famoso, e decise di tornare a Legolandia. Trovò suo padre che ormai lanciava solo le monetine allo stadio, le stesse che la madre raccoglieva dalle fontane e dai pozzi dei desideri. In paese lo accolsero come un eroe, perchè speravano che portasse qualche regalo. E infatti lo fece: una confezione formato famiglia di stuzzicadenti per tutti. Fu ghigliottinato, perchè in un paese dove non c’è niente da mangiare, gli stuzzicadenti servono solo per fare ombra, ma neanche tanto. Così termina la storia triste di uno sfortunello di nome Bo che nella sua lingua significa…

IGNATZ

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