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L’armatura di cappotto

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L’ARMATURA DI CAPPOTTO

L’uomo stava dritto, sull’isola in mezzo alla strada. Le auto correvano velocissime davanti e dietro di lui.
L’aveva sempre sentita come un segno della scarsa capacita’ umana di prendersi in giro, la velocita’ delle auto nei grandi incroci – ore di punta. Auto che passano forte piu’ forte sfrecciano rombano sgommano roar rombano corrono e quasi investono vecchietta curva scappano gatti e foglie che crepitano Stoooop!!!
Il semaforo ora era rosso per gli assassini dell’ironia.
L’uomo fece un grande sorriso e attraverso’ le strisce pedonali; avrebbe voluto fare un passo avanti e mezzo indietro, seguendo il ritmo delle zebre. Avrebbe voluto fare la linguaccia ai pazzi bavosi rinchiusi negli abitacoli. Ma non era sicuro che il semaforo glielo avrebbe consentito, e si affretto’ ad attraversare. La vecchietta non fece in tempo, fu investita.
“Giunta cadavere”, avrebbe letto sul giornale senza vere emozioni il giorno dopo. Intanto, si doveva preoccupare del suo appuntamento. Si fermo’ ancora un attimo a leggere l’insegna del pub, sapeva gia’ che cosa c’era scritto, ma l’abitudine a controllare lo travolgeva anche nei gesti minimi. Era un professionista. Lo sguardo scivolo’ giu’ dall’insegna alla strada, meglio al marciapiede dove una cenciosa era tutte intenta ad ammucchiare cartoni. Lo faceva con una grazia tipica dei poveri. Con l’ordine interiore ed esteriore di chi non ha piu’ speranza. Faceva cubi e piramidi, zikkurat e bungalows. Sembrava nata per manipolare cartone. E faceva la cenciosa. Strano destino degli spiriti liberi, che al contrario di quelli liberati non hanno maniera ma solo forma pura.
L’uomo torno’ in se’. Il pub era quello giusto, naturalmente.
Entro’. Lei ancora non c’era. Meglio cosi’, avrebbe avuto piu’ tempo per riordinare i pensieri e le emozioni. Non era stato davvero scosso dalla telefonata ricevuta un’ora prima. Pero’ sapeva che avrebbe dovuto esserlo, e cerco’ di condizionarsi al meglio per soddisfare il desiderio di stupire della sua amante. In fondo in fondo sospettava che il tono disperato della voce di lei che diceva “Ti devo vedere subito” fosse ancora una volta dovuto alla sua maniera di rompere la routine. Una trovata per vederlo, magari portarlo a fare l’amore in qualche strano posto. All’inizio questo modo di agire era stato anche il suo, con continue trovate, fantasie forzate e a volte addirittura copiate. Poi aveva capito che non ne valeva la pena, che si sentiva un ladro d’idee, che era facile tradirsi e che quando la trasgressione diventa regola non e’ piu’ trasgressione. Non e’ divertente, non appaga. Forse appaga i ciechi. Lui credeva di vedere. E aveva smesso da tempo di sforzarsi. Era solo se’ stesso, a costo di essere monotono. Non che rimanesse poco, perche’ bene o male la ricerca continua l’aveva condizionato e lui aveva assorbito molti segnali diversi. Ma non si straziava piu’, non perdeva ore di sonno per trovare due versi giusti da declamare sotto il suo balcone. Anche perche’ lei stava al decimo piano, hai voglia di urlare…
Bene, il senso dell’humour c’era ancora. Era meglio di niente.
Anche se non poteva celare che era arrivato all’andropausa.
Le sue battute non erano piu’ quelle illuminanti – fulminanti – strazianti – pungenti – oddio non la smetto piu’ di ridere di una volta. Erano leggere, non lasciavano altro che un piccolo alone vacuo e fuggevole.
Aveva gia’ fatto un passo dentro al pub, quindi torno’ all’argomento principale, l’appuntamento. Si guardo’ attorno per vedere se c’era nessuno che conoscesse e volesse evitare, scelse un posticino appartato e appoggio’ sulla sedia il cappotto. Guardo’ fuori dalla grande vetrata, la cenciosa continuava l’opera, muovendo le labbra.
Stava senz’altro cantando una cantinenia struggente tramandata dal suo sangue zingaro.
E a questo punto entro’ lei.

Era accompagnata, forse portata, da una ventata d’aria gelida.
Il vento freddo del febbraio metropolitano. Il vento che uccide gli odori e da’ alle forme spigoli vivi, le rende…piramidi e zikkurat !
La cenciosa era un segno, evidentemente. Ma lei era entrata, e non sembrava intenzionata ad assecondare il suo delirante ricamo sull’ordine sommo del mondo. Si tolse il basco alla francese comprato a Parigi. Lo appoggio’ con un gesto che voleva sembrare disinvolto ed era frenetico sul tavolo, di lato. Ordino’ un daiquiri. Si accese una sigaretta, ma la spense subito nel posacenere. E finalmente lo guardo’.
Gli sparo’ gli occhi negli occhi, fu di saetta quel colpo e frustata, fu dolore direttamente nel connettivo e urlo del corpo. Lui la guardo’ solo per un attimo, poi fu costretto a distogliere lo sguardo. Lo fisso’ sul suo naso che si stava allungando e lo puntava dritto al cuore con la sua punta acuminata e si allungava ancora e stava per colpire…

“Io non ce la faccio piu’. Ti mollo”. Ancora la frustata, e ancora nel pub arrivo’ una ventata gelida. Quella di prima voleva essere un avvertimento, un’annunciazione. “Pensaci finche’ sei in tempo”, gli aveva mandato a dire il vento. E dire che lui aveva simpatizzato con la tenerezza di quel gelo. Non realizzo’ subito, fu in un secondo momento che le sue parole lo acchiapparono, come se l’eco avesse rinforzato una voce flebile e l’avesse resa comprensibile.
“Stai scherzando, vero ?”

“No”. Non disse molto di piu’. Fini’ il daiquiri, non pago’ come fanno sempre le donne quando ti mollano, e con una tranquillita’ disarmante si rialzo’. Se ne ando’ velocemente ma senza affrettare il passo.
Stavolta non era ne’ nervosa, ne’ frenetica, ma armonica. Quando usci’, arrivo’ un’altra ventata.
Era la definitiva Percezione.
L’attimo duro’ un’eternita’. Prima penso’ di picchiarla. Poi di picchiare se’ stesso. Poi gli venne in mente quella volta che aveva prestato il triciclo al compagno di giochi piu’ fidato, e quello era tornato ridacchiando col triciclo spezzato in due. “Non ho fatto apposta”, era il massimo che gli aveva saputo dire. Poi ripenso’ che non era stato tutto vano.

Poi che pero’ era stato stressante. E ancora, che non sarebbe piu’ tornato nei prati. Infine prese in considerazione il suicidio. Guardo’ fuori dall’ampia vetrata per trovare una risposta a quel momento d’incertezza che provava, dopo essersi visto capace di degnare d’uno sguardo l’ultimo gesto per una donna. Gli venne in mente Ursula
LeGuin, “il suicida uccide il resto dell’umanita’”. Sarebbe stato meglio “sputa”, perche’ l’umanita’ non si lascia uccidere tanto facilmente. Si asciuga la faccia e tira dritta per la sua strada tracciata da Lachesi. Comunque il punto non era la mitologia.
Dunque suicidarsi?
La cenciosa continuava a modellare i cartoni. Le auto continuavano a sfrecciare. Il semaforo ad arrossire ed avverdire. La porta del pub sbatteva, il vento entrava svogliato ma conscio di dover fare il proprio lavoro. Insomma, il mondo avrebbe tirato avanti anche senza di lui, tranquillamente. Fu per questo che accantono’ l’idea di ammazzarsi. Perche’ lo sputo d’un suicida fa il rumore d’una scoreggia.
Pago’ il conto, quasi fosse il suo ruolo nella vita. Si infilo’ il cappotto. Ritorno’ contemporaneamente in possesso della sua cultura, della sua liberta’ forzata, degli amici che devono esserlo, delle emozioni che a volte si provano davvero. Tutto questo infilando un cappotto.
Usci’ all’aria di metropoli, fredda come prima e carica di risveglio.
L’andropausa era un ricordo. Fuori faceva freddo davvero. Ma lui aveva il suo cappotto. E poteva star tranquillo.

IGNATZ

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