LIBRO DA CASSETTA.
INTRODUZIONE
Uno scrittore malato di musica pop e di calcio trasfigura la sua esperienza esistenziale, traduce le sue passioni e le sue manie in letteratura, inventa due romanzi irripetibili: “Febbre a 90°” e “Alta fedeltà”. Le fortune dei suoi primi libri travalicano le attese dell’autore e degli editori: in neppure dieci anni Nick Hornby va a costituire uno dei tre principali casi letterari inglesi di fine secolo, assieme a Ian McEwan e a Richard Mason. Il suo pubblico si comporta esattamente come il narratore/alter ego di “Alta fedeltà” con i musicisti emergenti e non ancora sputtanati dalle logiche delle major discografiche: inizia a consigliare a qualche amico selezionato un autore di nicchia (eh..) che scrive di rock e di pallone come nessun’altro in precedenza. “Un letterato che scrive di calcio e di musica leggera?” – l’attrazione è irresistibile.
Sdoganare il pop a questi livelli è impresa eroica: senza semplificazioni e senza forzature, senza artifici e senza preconfezionamenti sembra impossibile. Hornby dimostra l’opposto: i lettori si accorgono che la visione del mondo dell’artista e le sue trasfigurazioni (per lo più) autobiografiche non hanno traccia di compromessi e di mistificazioni, che Hornby non si spaccia per altro da sé: è amore autentico. Il terzo romanzo, “Un ragazzo”, mostra qualche primo segno di cedimento: Nick Hornby sembra cominciare a rinunciare a se stesso. Prodromi di uno snaturamento che si definisce compiutamente nell’incerto e traballante “Come diventare buoni”, libro che regala all’artista di Maidenhead un nuovo e assai eterogeneo pubblico ma sembra corrodere e rovinare il suo legame con lo zoccolo duro di aficionados. Hornby conosce la lezione: quando una band inizia a tradire se stessa i vecchi fan prima si ribellano, poi voltano le spalle, infine, malinconici e delusi, cominciano a guardare di sottecchi i nuovi entusiasti d’un prodotto (d’un prodotto: non più d’un artista o d’un’opera).
È “altra gente”. Perfino esteticamente irriconoscibile e irritante. In questo caso, ammettiamolo: Hornby stava conquistando le simpatie di noiosi qualunquisti e di anonimi lettori medi. Metamorfosi dickensiana: uno strapiombo.
Complici tre traduzioni cinematografiche dei primi romanzi (fondamentalmente infedeli, ma almeno apprezzabili nel caso di “Fever Pitch” e di “High Fidelity”), il talento pop stava diventando popolano e non più popolare.
Ci siamo accostati al nuovo libro, “31 canzoni”, con aria dimessa e senza nascondere qualche titubanza. Il titolo e la copertina promettevano qualcosa di buono: appena usciti dalla libreria, cominciando a sfogliare il “romanzo” (virgoletto per elasticità), siamo incappati nella testimonianza più credibile che il nostro era tornato.
“Qualche anno fa cominciai a vendere molti libri (…)Non me l’aspettavo e la cosa mi colse impreparato. Non che i miei libri si rivolgessero a un pubblico di nicchia: non avevano niente di complesso né di sperimentale, piuttosto mi sembravano piccoli libri un po’ stravaganti. Ma improvvisamente gente di ogni tipo, persone che non conoscevo o non mi piacevano o non stimavo, mostravano di aver qualcosa da dire sul mio lavoro trasformandolo di colpo da nuovo e originale che era in un cumulo di cliché e luoghi comuni, senza che io avessi cambiato una virgola“. Appunto. Sbattiamo la porta in faccia a questa gente e torniamo sulla strada maestra, subito.
31 CANZONI.
“Frankie Teardrop, dei Suicide, sono dieci minuti e mezzo di autentico, terrificante rumore industriale, una specie di equivalente sonoro di Eraserhead.
Come il film di David Lynch, evoca una raggelante, cupa e monocromatica distopia, piena di acuti e clangori da brivido, ma del tutto priva, a differenza del film, di qualche raro momento di tregua, del più piccolo, sporadico sprazzo di una bizzarra e anomala speranza“. (Nick Hornby, “31 canzoni”).
Non è un romanzo, almeno non in senso stretto; non è un saggio, e non è neppure una miscellanea di critica rock. È una sorta di zibaldone pop: attraverso 31 canzoni, Nick Hornby racconta se stesso, il suo percorso esistenziale, intellettuale ed artistico, la ragione del suo fanatismo e spiega, indirettamente, le cause del suo successo. Hornby scrive senza filtri.
Finalmente il narratore e l’autore coincidono: accantonata la maschera dell’alter ego di turno, licenziati metri e canoni della fiction romanzesca, lo scrittore inglese conversa direttamente con il lettore, senza più nascondersi dietro a una trasfigurazione o ad una rappresentazione. L’esito, per il cultore di Hornby, stavolta era in fondo irrilevante: fondamentale era la sensazione di una ritrovata empatia, di un progressivo, irrefutabile riconoscimento di uno stile e di uno spirito che si temeva cambiato o perduto (si legga: compromesso). A differenza dell’ultima, deludente prova di Daniel Pennac, l’autobiografismo non ha affatto il sapore della celebrazione. Non c’è traccia di compiacimento, non c’è traccia di spocchia, non c’è traccia di cerebralità; e non c’è neppure il velleitario tentativo di architettare una struttura romanzesca. L’impatto è miracolosamente autentico: la sensazione è che Nick Hornby sia entrato in casa, si sia messo a guardare la parete di dischi e che, poco a poco, abbia iniziato a raccontare quel che gli era successo negli ultimi tempi attraverso una selezione di canzoni.
Comunica: direttamente e trasversalmente. Comunica l’orgogliosa e difficile storia della malattia del figlio, comunica l’origine dell’amore per un gruppo o per una canzone, comunica la gioia d’aver incontrato un negoziante di dischi onesto e integralista pop, comunica la rabbia per essersi ritrovato a vivere un ruolo che non sentiva appartenergli. Ascolta e interiorizza musica, testi, contesti: consapevole, con Pater, che la sua arte si nutre e “aspira costantemente alla condizione della musica”, forma d’espressione purissima.
A volte, alla piacevole sensazione di condividere argomenti, gusti e conoscenze dello scrittore inglese, si accompagna la deliziosa frustrazione d’ignorare band, gruppi, canzoni: ovviamente l’edizione dispone di una discografia, in appendice. Non abbiamo giustificazioni per le nostre lacune: colmiamole.
Lo spirito rock che dovesse accostarsi a queste pagine troverà, in più di un frangente, occasione di avviare una micidiale dialettica con le argomentazioni di Hornby: certe prese di posizione sono un po’ spiazzanti (alludo, per intenderci, alle discrete parole spese per, diosanto, Nelly Furtado e Rod Stewart), altre fondamentalmente condivisibili (la denuncia dell’eccessiva sopravvalutazione della “poesia” di Bob Dylan, l’ammissione di grandezza dello Springsteen di “Thunder Road”, il panegirico di Patti Smith), altre, ancora, di una chiarezza e di un’ironia splendide. Alludo, ad esempio, a questo illuminante passo: “Due sono le ragioni, credo, per cui le categorie di estremo e pericoloso provocano tanta eccitazione nella critica. La prima è che i critici devono leggere tanti libri, o vedere molti film, o ascoltare molta musica, e si tratta per gran parte di materiale piatto, di roba tutta uguale. Di conseguenza, chiunque incida un disco tirando in ballo una sega elettrica o giri un film che scorre al contrario per dodici ore viene immediatamente, forse anche comprensibilmente, elogiato e spesso sopravvalutato, come possono facilmente constatare i lettori stufi che cercano di condividere gli entusiasmi delle pagine di cultura del loro giornale preferito“.
Bentornato.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Nick Hornby (Maidenhead, England, 17 aprile 1957), ex insegnante di Letteratura. Narratore, sceneggiatore, giornalista e critico letterario inglese.
Nick Hornby, “31 canzoni”, Guanda, Parma, 2003.
Traduzione di Giorgio Rinaldi.
Titolo originale: “31 songs”.
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA:
Nick Hornby, “Febbre a 90°”, Guanda.(prima ed.: Fever Pitch, 1992).
Nick Hornby, “Alta fedeltà”, Guanda, Parma, 1996(prima ed.: High Fidelity, 1995).