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Il buco nel rumore – Patrick Ness

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Rizzoli, 2008

Se siete amanti della fantascienza, e volete leggere qualcosa di bello e particolare, sappiate che anche tra le edizioni per ragazzi potrete trovare un piccolo capolavoro. E non sto parlando di una cosa come Il ladro del tempo, o simili, romanzi interessanti sì, ma in qualche modo scritti tenendo ben presente il target d’età del pubblico a cui si rivolgono. Sto proprio parlando di un piccolo capolavoro della fantascienza. Qualcosa da leggere, da ricordare e da consigliare. Qualcosa che non va troppo per il sottile e anche se ha una copertina che fa pensare ad un testo leggero, leggero non è per niente. Ricorda, in qualche modo, in piccolo, Il Signore degli Anelli, oppure L’Ombra dello Scorpione. Sa essere epico, e tragico, ed emozionante.

Sto parlando de “Il buco nel rumore” (il titolo in italiano ha senso, ma quello inglese è “The Knife of Never Letting Go“, che non ci assomiglia per niente, e ha tutto un altro tono), dello scrittore americano (anche in questo caso sconosciuto in Italia) Patrick Ness. Il Guardian, nel retro di copertina, ammicca, e dice che per capire quanto sia grande quest’opera basta leggerne la prima frase. Ed è un consiglio sensato, perché la prima pagina (più che la prima frase e basta) prende davvero. Ma la prima pagina parla di un cane che pensa “cacca cacca cacca” e di un ragazzo, che non è ancora un uomo perché gli manca ancora un mese prima di entrare nell’età adulta, a cui tocca di andare a prendere delle mele. E questa è una porta molto gradevole per la sequenza di eventi che da lì a breve inizieranno a sconvolgere la vita del protagonista, Todd, di “quasi” tredici anni. Anzi, di dodici anni e dodici mesi, per essere precisi.
E questo è il primo indizio (ok, insieme al fatto che Todd sente i pensieri del suo cane Manchee, e di tutti gli animali, e di tutte le persone che vivono vicino a lui) che ci fa capire che non siamo esattamente in un posto noto. Ma su un pianeta, da qualche parte, colonizzato poche decine di anni prima che la storia inizi. In cui le cose però non stanno andando come ci si aspetterebbe. Con un po’ troppa gente che ha dato di matto, in un modo o nell’altro, e troppi segreti, troppi.

Il testo è scritto in prima persona. E’ Todd Hewitt che ci racconta cosa gli succede. Giocando un po’ con il lessico e lo stile. E stupendoci piacevolmente con un po’ di effetti tipografici – quando ciò che leggiamo è un pensiero di altri – il Rumore, incessante e instoppabile, delle persone che sono lì intorno. Che sa essere abbastanza caotico perché renda davvero l’idea della situazione. E riesce ad aggiungere, senza svelare.
Le cinquecento e passa pagine di questo romanzo non scorreranno tutte allo stesso modo. E qualcosa, qua e là, suona forse un po’ strano. Come se nello stile, o nella storia, ci fosse qualche piccolo scricchiolio. Ed è per questo che ho parlato di capolavoro, piccolo. Ma se si passa sopra questa impalpabile sensazione che manchi ancora qualcosa (sensazione che prende solo a libro chiuso, quando si medita, perché si medita, su quanto letto) il resto è praticamente perfetto. La fuga di Todd, l’incontro con Viola. La paura. I nemici. Il lungo percorso e la crescita di consapevolezza, prima ancora che di conoscenza. I tanti incontri e le prove che questi sottendono. La splendida, splendida, chiusura. Sì, il resto, è praticamente perfetto.

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