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Separazione delle carriere

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un punto di vista[1]

Chi professa una fedeltà incorrotta al vero
 deve parlare di tutti senza amore di parte né odio.
Tacito, Storie, libro I
 
Separare le carriere dei Magistrati significa istituire due diverse strutture organizzative e ordinamentali, una per la magistratura “requirente”[2] (i Pubblici Ministeri che “esercitano l’azione penale” sostenendo l’accusa), e una per la magistratura “giudicante” (i Giudici, che in posizione di terzietà rispetto alle parti, decidono con sentenza le cause civili, penali, amministrative)[3].
Vale la pena illustrare l’opinione che sull’argomento espresse, alcuni anni fa, Giovanni Falcone, magistrato vittima della mafia, punto di riferimento nella storia civile e giudiziaria del nostro paese[4], il quale, nei primi anni della sua carriera trascorsi a Trapani, era stato, per un periodo, Pubblico Ministero. “…Quindi conosceva quanto me la radicale differenza di quel mestiere rispetto a quello del giudice, che il nuovo codice, fondato sul modello accusatorio, avrebbe ancora di più esaltato[5]. Non discutevamo tanto dell’autonomia e dell’indipendenza del pubblico ministero, ma dell’indubbia anomalia rappresentata dall’unicità delle carriere, estranea non a caso, a tutti gli ordinamenti dei più importanti Paesi occidentali.
La separazione delle due carriere non ci scandalizzava affatto. Anzi, con tutte le cautele del caso, la ritenevamo per molti versi auspicabile…”
Tuttavia, molti fra magistrati ed esponenti politici si dichiarano profondamente contrari a questa riforma legislativa, di fatto preannunciata di recente dal Governo[6], nella convinzione che la “separazione” possa comportare il rischio di un controllo politico “forte” sull’ufficio del PM da parte del potere esecutivo[7].
In altri termini, se il Pubblico Ministero non fosse più un “Giudice” ma una parte, come un qualsiasi avvocato, allora dovrebbe avere un “datore di lavoro”; proprio come un avvocato. E qui entrerebbe in gioco il Governo, naturalmente, proprio come in quasi tutti gli altri Paesi occidentali. E che farebbe il Governo/datore di lavoro? Stabilirebbe quello che il “dipendente” deve fare e quello che non deve fare, come lo deve fare, quando lo deve fare, fino a che punto lo deve fare. E che farebbe questo PM posto agli “ordini del Governo”? Farebbe i processi che il Governo gli permette di fare, e non quelli che il Governo non vuole che siano fatti. Fuor di metafora, farebbe i processi per rapina, omicidio e spaccio di droga, insomma quelli che “non interessano la classe dirigente”, per restare alla cronaca recente. Di più, si arriva ad affermare[8] che se il pubblico ministero non fosse “libero di agire in qualsiasi direzione”, ma solo in quelle indicate da un altro potere dello stato, é chiaro che sul tavolo del Giudice arriverebbero solo alcune indagini e, di conseguenza, anche l’attività del Giudice finirebbe col subire una “forma di controllo”.
In secondo luogo, ci si basa su un presupposto, ben radicato nell’opinione di molti magistrati[9], ma non sempre dimostrabile e dimostrato, e cioè che il PM (essendo innanzitutto un magistrato della Repubblica), “tutela anche gli interessi della collettività”, e non potrebbe essere parificato all’avvocato difensore, che, come “parte”, tutela solo quelli del suo cliente[10].
Per il PM non sarebbe importante che l’imputato venga condannato ma che il reale “colpevole” venga condannato. E quindi, se l’imputato non è colpevole (perché le prove raccolte contro di lui si rivelano non convincenti, insufficienti o contraddittorie) il PM ha l’obbligo di chiedere che venga assolto. Per questa ragione, nel PM, si riassume il ruolo di accusatore e difensore: egli deve cercare di capire se l’imputato è colpevole o innocente; e, quando crederà di aver capito (perché sempre di giustizia umana si tratta) chiederà al Giudice la condanna o l’assoluzione[11]; da qui la necessità di restare in una categoria unica di magistrati all’interno dell’ordine giudiziario.
A questo punto torniamo al pensiero di Falcone[12] che si riporta testualmente: “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi… su questa direttrice bisogna muoversi. … Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura.”.
Inoltre lo stesso Falcone ebbe a ricordare che proprio durante i lavoro preparatori della Costituzione nel 1946/48, il grande giurista Piero Calamandrei[13], notoriamente ostile a qualsiasi forma di dipendenza del Pubblico Ministero dall’esecutivo, non nascose mai di “essere ben consapevole dei pericoli insiti in un PM totalmente privo di controllo“. Appariva, dunque (e appare a tutt’oggi per chi scrive), “antistorica” la resistenza, opposta dall’Associazione Nazionale Magistrati ad ogni ipotesi di lavoro che riguardi la separazione delle due carriere, resistenza che si risolve di fatto in una battaglia di retroguardia meramente corporativistica.
L’Italia, tra i Paesi più avanzati, è la sola che non dispone di una “politica contro la criminalità” che, come scrisse Falcone nel 1989, “non può essere lasciata alle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici (cioè dei Procuratori della Repubblica “Capi” N.d.A.) – o peggio dei singoli magistrati (sostituti Procuratori N.d.A.)– senza alcuna possibilità istituzionale di intervento“. Infatti, come noto, nel nostro sistema giudiziario, vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale[14], per il quale, cioè, il Pubblico Ministero deve agire (“esercitare l’azione penale”, cioè aprire un fascicolo di inchiesta, fare indagini in proprio e/o attraverso la Polizia giudiziaria, infine richiedere, o meno, al Giudice che si celebri il processo penale, c.d. “rinvio a giudizio”), in “ogni caso” di reato (dal furto di una mela alla strage terroristica), di cui venga a conoscenza. Tale principio da teorica garanzia, si risolve in una delle principali cause della insopportabile lentezza della macchina giudiziaria, dalla quale, a sua volta, deriva la sostanziale impossibilità di osservarlo[15].
Dunque, molti giuristi sostengono che il Giudice terzo previsto dalla Costituzione[16] è difficile da trovare in qualsiasi Tribunale del nostro Paese, perché intellettualmente, professionalmente, persino istituzionalmente il Giudice è spinto a essere più vicino alle istanze del Pubblico Ministero che non a quelle dell’avvocato difensore; con il PM condivide la formazione professionale, le aspettative di carriera, la regolamentazione disciplinare e una serie infinita di affinità culturali. Sarebbe questa la parte rimasta incompiuta nella riforma del 1989: la separazione netta delle carriere, che avrebbe realizzato appieno l’obbiettivo del legislatore di trasformare il vecchio processo di tipo inquisitorio nel più “democratico” e garantista rito di tipo accusatorio, ed avrebbe superato quella “unitarietà della magistratura”, retaggio di regimi autoritari, come quello napoleonico o quello fascista. Alcuni ricordano, infatti, come Dino Grandi, importante esponente del regime di Mussolini, sostenesse il principio dell’unicità delle carriere che realizzava una concentrazione del potere giudicante e requirente in una sola categoria di magistrati, all’evidente scopo di esercitare un controllo politico sulle toghe già all’epoca. Era il 1941, e i gerarchi fascisti intuivano che l’unicità dell’ordine giudiziario costituiva un elemento di debolezza per la magistratura stessa, cioè l’esatto contrario di ciò che si prefiggono oggi gli strenui difensori della indivisibilità delle carriere.
Talvolta viene citato l’esempio francese, dove esiste un ordinamento giudiziario (nei fondamentali ereditato dalla riforma napoleonica), in cui, da un lato non è prevista la formale separazione delle carriere, dall’altro l’autorità di governo può esercitare un effettivo potere d’indirizzo sull’ufficio del PM. Di questo aspetto poco liberalistico e antiquato del loro sistema di procedura penale ne sono consapevoli gli stessi politici e operatori giudiziari d’oltralpe, i quali intendono reagire anche introducendo questa fondamentale separazione; Guy Canivet, importante magistrato transalpino[17], ha affermato che: “una cosa è agire sulla base di un’incriminazione, raccogliere prove, sostenere l’accusa, avere come obbiettivo l’arresto o la condanna di qualcuno (e appare perlomeno “poco credibile” che lo stesso magistrato che ha iniziato l’inchiesta seguendo una propria tesi, possa cercare con la necessaria attenzione e cura anche gli elementi “a discarico” dell’indagato, che lo possano fare assolvere, come dovrebbe essere in Italia); altra cosa è avere un atteggiamento neutro per esaminare le prove, la legalità della procedura e decidere, in tutta indipendenza, la sanzione da applicare. Nel primo caso l’azione è finalizzata, orientata a un preciso obiettivo; nel secondo invece c’è una neutralità perfetta”.
In conclusione, a parere di chi scrive, il mantenimento dell’indipendenza e autonomia della magistratura può essere compatibile con un assetto che preveda la separazione delle carriere fra magistrati con diverse funzioni, attraverso una sapiente ed equilibrata riforma legislativa, rispettosa dei fondamentali principi costituzionali[18], che presuppongono lo strumento giudiziario come a tutela della libertà di ciascuno e giustizia (effettiva e celere) fra tutti i cittadini.
 
“Siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo”
Gandhi


[1] Nell’immagine: “Palazzo dei Marescialli” in Roma, sede del Consiglio Superiore della Magistratura.
[2] O “inquirente”.
[3] Cfr. Giulia Alliani, in senso contrario alla separazione, in www.osservatoriosullalegalita.org del 10/08/2008
[4] Vedi “Chi ha paura muore ogni giorno-i miei anni con Falcone e Borsellino” di Giuseppe Ayala, ed. Mondadori-Milano, 2008, pagg.154 e ss.
[5] Prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale (DPR 22/09/1988 n.447, in vigore dall’ottobre 1989), vigeva il processo cosiddetto inquisitorio, assai diverso dall’attuale. Dopo l’iniziativa originaria di impulso del PM (come era Ayala), le prove del reato erano raccolte dal Giudice Istruttore (come era Falcone), il quale, alla fine del suo lavoro, disponeva che si celebrasse il processo vero e proprio (al quale però non partecipava), in presenza di prove sufficienti presentate (e sostenute), dal solo PM. Oggi la fase “istruttoria” non esiste più, la prova si forma direttamente davanti al giudice, nel contraddittorio tra le parti; il PM porta le prove a sostegno dell’accusa, la Difesa le contrasta fornendo le proprie e il Giudice decide secondo il suo convincimento; Ayala, op.cit. pagg.18 e ss. 
[6] Cfr. “Il Giornale” del 20/12/2008 con l’intervista al Ministro della Giustizia Angelino Alfano: “Sul piano tecnico si può chiamare separazione delle carriere, ma il principio è quello della parità tra accusa e difesa e della terzietà del giudice”. Il ministro della giustizia Angelino Alfano risponde così ad una domanda di Maurizio Belpietro a Panorama del giorno su Canale 5. “Serve un giudice che sia terzo ed equidistante, cosa che pensiamo non sempre ci sia stata. Pm e giudici – ha spiegato Alfano – fanno parte dello stesso ordine, lavorano negli stessi uffici, fanno gli stessi concorsi…”.
[7] Cfr. “La Palude-gli sprechi, le assurdità, gli eccessi e gli interessi che paralizzano la giustizia italiana”, di Massimo Martinelli. Ed. Gremese-Roma 2008, pagg.166 e ss.
[8] Cfr. Alliani, op. cit. supra; “Sarà poi necessario istituire due Consigli Superiori della Magistratura? Uno per la requirente e uno per la giudicante? Con quali criteri verrà formato un ipotetico Consiglio Superiore della Magistratura Requirente? Chi ne farà parte? Quanti saranno i membri di nomina politica? Come influiranno costoro sull’indipendenza dei pubblici ministeri? Verrà attuato un controllo sulla pubblica accusa?”
[9] Cfr. l’opinione di Bruno Tinti, Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Torino, in “te lo dico a chiare lettere” social network, del 23/07/2008, curatore di “Toghe Rotte, la giustizia raccontata da chi la fa”, edizioni Chiare Lettere-Milano 2007, citato nell’articolo “Diritto e Procedura penale (all’italiana)…” in KultUnderground-n.157-agosto2008,rubrica Diritto.
[10] Ancora da “Il Giornale” del 20/12/2008, intervista al Ministro della Giustizia: “…La questione della parità tra accusa e difesa, ha detto Alfano, rappresenta la “terza fase” delle riforme, dopo quella del processo civile, “in Senato per l’approvazione definitiva”, e dopo quella del processo penale “di cui ci occuperemo prima di Natale”. Quindi un “intervento sulla Costituzione su materie che stanno a cuore ai cittadini, come la parità tra accusa e difesa”.
[11] L’avvocato difensore, lui si, è “uomo di parte”; nel senso che egli ha un obbligo ben preciso: far assolvere il proprio cliente oppure, alla peggio, fargli avere la pena più lieve possibile. Se un PM sa che sarebbe possibile acquisire una prova che dimostra l’innocenza dell’imputato, la dovrebbe acquisire; se un avvocato difensore sa che esiste una prova che dimostra la colpevolezza del suo cliente, deve (proprio deve) evitare (con mezzi leciti si capisce, ma qui il discorso si farebbe troppo complesso), che venga scoperta. Insomma, non sarebbe vero che PM e avvocato sono due soggetti animati da interessi contrapposti: il PM può trovarsi dalla stessa parte dell’avvocato. E non è vero che hanno un ruolo processuale paritario: il PM difende un interesse pubblico – l’identificazione e la punizione del colpevole, chiunque esso sia -; l’avvocato difende un interesse privato – l’assoluzione del suo cliente, anche se colpevole -.
[12] Cfr. Ayala, op. cit. pag.156
[13] Calamandrei Piero (Firenze 1889-1956) giurista e politico. Professore di procedura civile a Messina, Modena, Siena e, infine, a Firenze, fu uno dei maggiori esponenti della scienza processual-civilistica, distinguendosi per la capacità di armonizzare il rigore dogmatico con la sensibilità verso le esigenze di giustizia e i valori di libertà.
[14] Art.112 della Costituzione della Repubblica Italiana: “Il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.”
[15] Ancora da “Il Giornale” del 20/12/2008, intervista al Ministro della Giustizia: “..Per quanto riguarda l’obbligatorietà dell’azione penale, che Alfano ha definito “un principio giusto e sacrosanto” non ci sarà invece un intervento sugli aspetti costituzionali. ” Ma quando il PM riceve troppe notizie di reato non ce la fa e il principio di obbligatorietà diventa di fatto discrezionalità”. Per questo, ha aggiunto, “si pensa a indicare delle priorità su cui si possa misurare anche la capacità degli uffici a perseguire reati”.
[16] Art.111, II° comma, Costituzione della Repubblica Italiana
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.” Cfr. Martinelli, op.cit. pagg.165 e ss.
[17] Primo Presidente della Corte di Cassazione, cfr. Martinelli, op.cit. pag.167 e ss.
[18] Art.104, I° comma, Costituzione della Repubblica Italiana
“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.
 

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