IL LIBRO DEL CALCIO.
“Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o alla sconvolgimento che avrebbe portato con sé” (p. 13).
“Il calcio, com’è noto, è il gioco del popolo, e come tale cade nelle grinfie di tutta quella gente che non è, insomma, il popolo. Ad alcuni piace perché sono dei socialisti sentimentali; ad altri perché hanno frequentato le scuole private, e vorrebbero non averlo fatto; ad altri ancora perché il loro lavoro – di scrittore, giornalista televisivo o pubblicitario – li ha portati molto lontani da quello che considerano il loro luogo di appartenenza, o di provenienza, e il calcio sembra loro un modo veloce e indolore di ritornarci. E pare che siano proprio queste persone ad avere maggior bisogno di dipingere i campi da calcio come il rifugio di un sottoproletariato esasperato e degenere; dopotutto, non è nel loro interesse dire la verità (…) Senza la miriade di demonologie sul calcio, come possono dimostrare di capire il mondo d’oggi coloro che se ne sono allontanati?” (p. 95) .
La letteratura ha qualcosa che il cinema non ha mai avuto: l’opera che spiega, racconta e sintetizza cosa sia il calcio. La lacuna, sino agli anni Novanta, era comune ad entrambe le arti: il memorabile esordio di Nick Hornby, letterato inglese e tifoso dell’Arsenal, ha cambiato definitivamente la situazione.
“Febbre a 90°” non è un romanzo semplice: è un romanzo coinvolgente, che è ben differente. Il coinvolgimento e l’identificazione del lettore con l’io narrante sono tanto spontanei e immediati da spingere a chiamare in causa la categoria della “inevitabilità”: Hornby è riuscito nella difficilmente ripetibile impresa di rappresentare l’archetipo del tifoso, spiegandone riti, esorcismi, stati d’animo e manie e rivelando il primo segreto del calcio; la capacità di far sentire un individuo parte della collettività, il dono di saper spogliare dell’identità e della coscienza il tifoso per integrarlo nella sacra atmosfera della partita, il talento di sublimare le sconfitte della quotidianità nella dedizione alla squadra. Nella fede.
Il linguaggio adottato è solo apparentemente piano: l’enciclopedica conoscenza della storia dell’Arsenal e del calcio inglese possono convincere perfino un lettore debole o occasionale della linearità del libro. “Fever Pitch” è in realtà la storia di un uomo, delle sue passioni, delle sue malinconie e dei suoi amori, attraverso ventiquattro anni di narrazione. È, obiettivamente, un autentico romanzo di formazione. Simboleggiato dalle vicende d’una squadra di calcio.
Anatomia d’un’ossessione: vissuta misurando la propria vita per stagioni, e non per anni: 82/83, o 00/01, ad esempio, e non 1983 o 2001. Come per la squadra.
Il romanzo è strutturato in un’introduzione e tre parti: 1968 – 1975, 1976 – 1986, 1986 – 1992.
Nell’introduzione, Hornby spiega che il libro costituisce un tentativo di acquisire un punto di vista sulla sua ossessione: perché “agli ossessionati è negata qualunque prospettiva sulla loro passione” (p. 8). L’autore non pensa al calcio: ricorda, fantastica, visualizza, senza consapevolezza.
In compenso, più avanti (p. 81) illustrerà i vantaggi d’una memoria ossessiva: “Una memoria ossessiva è dunque, forse, più creativa di quella di una persona normale; non nel senso che noi inventiamo cose, ma nel senso che abbiamo una capacità cinematografica e barocca di ricordare, piena di innovazioni come i salti di montaggio e lo split-screen. Chi altri, se non un tifoso di calcio, userebbe un’azione malriuscita su un campo pieno di fango a trecento miglia di distanza per ricordare un matrimonio? Bisogna ammetterlo, le ossessioni richiedono un’agilità mentale degna di lode”.
Ognuna delle tre parti è suddivisa in capitoli: ogni capitolo è provvisto d’un titolo e dell’indicazione della data d’una partita.
Il libro si inaugura, dunque, con un promettente “Debutto in casa”, corrispondente ad Arsenal – Stoke City, disputata il 14 settembre del 1968: Hornby è un bambino di undici anni, introverso e malinconico per via della recente separazione dei genitori. Rimasto a vivere con la madre e la sorella, ha crescenti difficoltà di comunicazione col padre, nelle rare occasioni in cui si incontrano: “Non volevo fare assolutamente niente. Nulla di tutto ciò mirava a punire mio padre per la sua assenza: pensavo davvero che sarei stato contento di andare in qualunque posto con lui, tranne in qualsiasi luogo potesse venirgli in mente” (p. 15).
Fin quando il genitore non ha l’intuizione di portarlo nel santuario di Highbury, per vedere una partita dell’Arsenal: l’allora bambino Hornby esulta per la “travolgente maschiezza del tutto” (p. 17), in qualche maniera crea l’habitat ideale per frequentare il padre e stabilire un legame esclusivo, e s’appassiona, inizialmente, più allo spettacolo sugli spalti che a quello del gioco. Anche perché, come in più d’una circostanza rileva lo scrittore, l’Arsenal è formazione abbonata al pareggio o alla vittoria striminzita, al gioco di contenimento e non al calcio all’olandese – per essere fedeli alle parole di Hornby, non è mistificante la fama della squadra “più noiosa nell’intera storia dell’universo” (p. 18), la rabbia e la sofferenza del tifoso sono una consuetudine, tanto da spingere l’autore ad affermare che sostenere l’Arsenal suggerisce l’idea nuova dell’intrattenimento come “dolore” (p. 19: e io inizio a pensare alla Roma, con terribile angoscia).
Hornby vive il prepartita, sin da quelle prime esperienze, con un invariabile livello di agitazione (p. 22): in compenso, sviluppa un micidiale spirito critico proprio grazie alla sua sensibilità da tifoso, e allo splendido esempio offerto dagli adulti sugli spalti, pronti a inveire contro il portiere colabrodo o il centravanti indolente, contro la mezzapunta fumosa o il terzino che calza ferri da stiro, e contro l’arbitro, di norma stipendiato dalla squadra ospite e maltrattato dalla moglie.
“Sono sempre stato accusato di prendere le cose che amo – il calcio, naturalmente, ma anche i libri e i dischi – troppo sul serio, e in effetti provo una specie di rabbia quando sento un brutto disco, o quando qualcuno è freddino nei confronti di un libro che significa molto per me. Forse furono quegli uomini accaniti, amareggiati, nella Tribuna Ovest dell’Arsenal che mi insegnarono ad arrabbiarmi in questo modo; ed è forse per questo che in parte mi guadagno da vivere come critico – forse sono quelle le voci che sento quando scrivo. “Sei un COGLIONE, x.” “Il Booker Prize? Il BOOKER PRIZE? Dovrebbero darlo a me che ti devo leggere!” (p. 19: si consiglia un quinquennio di tessera in Tribuna Tevere centrale, possibilmente in prossimità dei vecchi soci vitalizi, per capire la genialità di questa intuizione del talento di Maidenhead).
Hornby racconta gli anni della sua adolescenza attraverso le stagioni dell’Arsenal: l’identificazione con le sorti e lo spirito della squadra diventa cosciente e irrefutabile. Egli è “cupo, sulla difensiva, polemico, represso” (p. 44) proprio come la squadra dell’Highbury: nel 1972, mentre l’Arsenal vive una breve estate di calcio totale (p. 65), Hornby scopre che il padre s’è risposato e ha avuto altri due figli – la squadra riflette quella che il ragazzo vive come una allucinazione, come una stranezza inaccettabile; è come se producesse una metafora a suo uso e consumo (p. 68), per aiutarlo a capire quel che avveniva nella sua vita, salvo poi tornare nel solito grigiore. Stesso meccanismo si produrrà più avanti, quando l’Arsenal cede l’amatissima mezzala Liam Brady alla Juventus e Hornby viene lasciato dalla ragazza, dopo diversi anni: Hornby alluderà alla depressione di quel periodo (p. 121), associando i due eventi.
Hornby ha l’impressione di potersi allontanare dall’ossessione per l’Arsenal appena compie diciotto anni: l’amore costituisce il primo momento di rottura (p. 83), unito alla passione per i libri e all’ingresso (fortuito) all’Università di Cambridge: si sente cresciuto, e pensa che la vita “stava iniziando, e quindi l’Arsenal se ne doveva andare” (p. 86). La verità è diversa: l’Arsenal, nel 1975, è una squadra mediocre che non accende più l’immaginazione del tifoso (in altre parole: non fa godere), e la delusione e la frustrazione hanno toccato livelli inediti (acuiti dal rammarico di non aver vissuto appieno la storica Doppietta del 1971: scudetto e coppa). Basterà un neoacquisto, giusto in corrispondenza ai primi giorni di studio nel Jesus College di Cambridge, a restituire Hornby alla sua mania: a beneficio degli appassionati, segnalo che si tratta di Malcolm Macdonald, talentuoso e inconcludente (p. 91), rilevato per 333.333 sterline dal Newcastle.
Negli anni di Cambridge, Hornby s’affeziona a una delle due squadre locali, il Cambridge United: meno di quattromila spettatori a partita, nessuna storia alle spalle e tre categorie di distanza dall’Arsenal garantiscono che non si tratta di tradimento, ma di un ripiego nel calcio, “coperta di Linus” (p. 98), per evitare d’integrarsi o riconoscersi in un sistema che lo spaventava.
Oltretutto, si tratterà dell’unico periodo felice della storia del Cambridge: due promozioni in due anni, fino all’equivalente della nostra Serie B – esperienza conclusa poi, amaramente, nel 1983, con sei mesi senza vittorie (p. 146)
Il romanzo procede con il racconto dei primi anni di insegnamento di Hornby, dei suoi altalenanti stati d’animo, della depressione (si sente “sfortunato e maledetto”: p. 175, senza dimenticare che l’Arsenal perdeva le coppe in finale, a Wembley, due volte su tre) al lento recupero, e alla presa di coscienza definitiva di essere uno scrittore e di voler vivere di scrittura: primi anni Novanta, due scudetti in tre anni per l’Arsenal (memorabile la narrazione del primo, a diciotto anni di distanza dall’ultimo: ricorda un po’ la Roma, come tempi: 1983-2001), un nuovo amore e nuova maturità – dalla gradinata si passa alla tessera in tribuna, per intenderci.
Non manca l’amarezza dell’innamorato del calcio per le (annunciate) tragedie dell’Heysel e di Hillsborough: qualcosa s’incrina nella passione dello scrittore, ma provvisoriamente – il football è sostegno, rifugio e amore, non riesce e non vuole staccarsene. È il legame col padre lontano, emblema di momenti di vicinanza e di dialogo non ripetibili.
“Febbre a 90°” è il romanzo per chi ama il calcio e per chi non l’ha mai voluto soffrire: inevitabilmente potrà capirlo a fondo solo chi vanta lunga militanza sugli spalti e autentica fede in una squadra, ma obiettivamente potrà servire allo scettico o al diffidente per comprendere una visione del mondo che – se ne prenda atto – è molto più diffusa di quel che si può pensare.
Ad esempio, non potrei parlare della Roma con chi non ricorda chi era il portiere dell’Avellino nella giornata della quintupletta di Pruzzo: del resto si trattava d’un nostro ex Primavera. Non riconosco come interlocutore credibile chi ha dimenticato chi era il terzo dei giovani che Viola spedì a farsi le ossa a Cagliari, e che perdemmo per qualche misteriosa bega burocratica. Infine, proverei sdegno nei confronti di chi non sa ricordare il nome del portiere che schierammo nella finale dei tre calci di rigore del Principe, contro il Toro.
Da leggere e rileggere, nel corso degli anni. Stupendo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Nick Hornby (Maidenhead, England, 17 aprile 1957), ex insegnante di Letteratura. Narratore, sceneggiatore, giornalista e critico letterario inglese.
Nick Hornby, “Febbre a 90°”, Guanda, Parma, 1997.
Traduzione di Giorgio Rinaldi.
Titolo originale: “Fever Pitch”, 1992.
Segnalo una perplessità a proposito della traduzione: a pagina 78, nel capitolo “Tutto il pacchetto” (Arsenal – Coventry, 4-11-72), spunta una parola che immaginiamo non appartenga al vocabolario di Hornby: “cucadores”.
Ora: non avendo a disposizione il libro in lingua originale, non posso che limitarmi a congetturare che il traduttore abbia ritenuto opportuno restare fedele a uno slang. Veniamo al dubbio: era proprio necessario scomodare la parola “cucadores”, dall’orrido retrogusto catodico e dalla chiara connotazione regionale, per giunta datata anni Ottanta? Si poteva evitare.