“Urban Hymns” non è stato soltanto il testamento spirituale dei Verve: è stato uno dei migliori dischi di brit-pop degli anni Novanta, degno d’essere ascoltato, nella sua miracolosa semplicità, senza interruzioni e fast forward, dall’inizio alla fine: perché fondamentalmente coerente, mai contraddittorio e mai aspro, e spesso fatalmente accattivante. Senza dubbio – e, inevitabilmente, restando fedeli alla consuetudine, in questi casi – l’album ha sintetizzato un tradimento, agli occhi del pubblico dei primi Verve: qui dimentichi della psichedelia, dello sperimentalismo, di una almeno sommaria ricercatezza nei versi, d’una visionarietà che pure si giurava appartenesse al codice genetico di Richard Ashcroft.
Il ritorno di McCabe nella line-up della band si sente a intermittenza: l’anima cupa e introversa del gruppo trova meno spazio e viene progressivamente e inesorabilmente schiacciata dalla personalità del carismatico frontman.
Personalità che assume fama internazionale per merito del singolo-traino dell’album, “Bitter Sweet Symphony“, cover “spuria” di “The Last Time” dei Rolling Stones (campiona un sample di un’esecuzione orchestrale dell’originale), che d’un tratto, nell’estate del 1997, conquista milioni di entusiasti ammiratori in tutto il mondo: merito non solo d’una sinfonia trascinante e coinvolgente, ma d’un video che non sa passare inosservato.
Ashcroft, indosso un logoro giaccone di pelle, lo sguardo spiritato e il volto pallido e smunto, cammina per una strada della sua città: senza mai voltarsi indietro, senza mai deviare dalla traiettoria iniziale – abbattendo, letteralmente, a spallate qualche passante, saltando sul cofano d’una macchina, indifferente alle proteste di una incazzosa fumatrice biondina, finendo pestato in una rissa poi censurata nella versione ufficiale – conclude la sua parabola nel momento in cui viene raggiunto dagli altri membri del gruppo, e assieme a loro continua la marcia.
Il look tenebroso e malaticcio del talento di Wigan, la sua camminata spalleggiante e morrisoniana, il suo sguardo iniettato di sangue (per ragioni che forse non è difficile, ai più, intuire) si sono cristallizzati nell’immaginario dello spettatore: come paradigma del dissociato o del dissestato che avanza lungo il suo sentiero, incurante dell’alterità e determinato a non cambiare, mai, per nessuno, e per nessuna ragione. Ricordo, anni fa, d’aver colto qualche fotogramma del video nella versione televisiva del Jack Folla del grande Diego Cugia: in un contesto borderline, in piena avversione del sistema (vi prego, lasciatemelo credere: ne ho bisogno).
Segno d’una comune ricezione del messaggio: che è, evidentemente, piuttosto univoco e fatalmente gradito alle minoranze ribelli. Gran bel segno.
Spiace un po’ pensare che l’artista non sia rimasto fedele a questo “simulacro” che avevamo adorato: il singolo successivo, “The Drugs don’t work“, suggeriva un almeno ambito eclettismo – non più una rabbiosa marcia, ma una malinconica ballata dedicata alla madre ammalata; un video tutto concentrato sul volto di Ashcroft, a differenza del successivo “Lucky Man“, dal motivetto orecchiabile e allegrotto, dov’è la band al completo a presentarsi, in un appartamento, di fronte a una vetrata con vista panoramica su un paesaggio metropolitano.
Queste tre canzoni stanno ancora pagando l’eccessivo successo: mortificate da un inaccettabile bombardamento mediatico, macchiate da adozioni non consone al loro spirito (penso, nel caso di “Bitter Sweet Symphony”, a qualche spot televisivo e, recentemente, alla sua allucinante adozione in un programma sportivo romano: inaccettabile appropriazione indebita) comunque aliene, vogliamo sperare, alle intenzioni della band, troveranno nuova luce e nuova fortuna nel prossimo decennio: quando una nuova generazione andrà a riscoprire gli anni Novanta, e non potrà non riconoscere la grazia e l’ispirazione in questi tre pezzi e nell’intero album – senza più doverlo associare alle orrende contaminazioni del tubo catodico (non si parla dei clip, non serve precisarlo), o al gracchiante brusio delle radio commerciali.
“Urban Hymns” non conta solo sulle tre hit appena nominate: c’è spazio per un allegro e immediato “Sonnet” pop, dal retrogusto (non s’offenda nessuno) assai prossimo ad una battistiana “Canzone del sole”, per qualche momento di leggerissimo e liquido rock d’impatto (“Weeping Willow“, “Come On” o “The Rolling People“, molto vicina alle sonorità della successiva “New York”, nel primo album solista di Ashcroft), per una transizione dalle antiche distorsioni al neo-integralismo pop (“This Time“, “Catching the Butterfly“), per una vena di nostalgia nei confronti della passata gloria (“Neon Wilderness” è forse l’unico brano che potrà digerire chi amava “A Storm in Heaven”: ma a fatica), per qualche delicata ballatina adolescenziale (“One Day“, “Space And Time“).
È un disco col quale ogni cultore del britpop deve misurarsi: non può non essere ricordato nelle classifiche dei migliori dischi degli anni Novanta. Quantomeno, e forse paradossalmente, per la testimonianza di coraggio di una band che, pur di liberarsi dall’etichetta di gruppo amato dalla critica e non sempre compreso dal pubblico, si è gloriosamente suicidata. Con stile. Cause it’s a bittersweet symphony, this life…
SINGOLI
Si annidano diverse chicche tra i numerosi singoli legati all’ultimo album. Entriamo nel dettaglio.
“Bitter Sweet Symphony” (Hut 7243 8 94375 2 2) ospita la versione originale dell’inno della band di Wigan, l’indimenticabile radio edit e due pezzi altrove inediti: la ballata “Lord I Guess I’ll Never Know“, che sembra lasciare agevolmente intravedere i prodromi della futura produzione da solista di Richard Ashcroft, giocata com’è su un sound solare e furbastro, e “Country Song“, che invece echeggia le prime sonorità del gruppo. È un pezzo che non avrebbe sfigurato, per intenderci, in “A Storm in Heaven”. Il testo viene naturalmente a sostenere questa intuizione: lapidario l’incipit “Dying, it’s easy / it’s what I’m living for” – da registrare il refrain: “Love, Life, Happiness / Nothing More, Nothing Else” (con variante: “No Regrets“: che pure non è omaggio ai New Order dei primi anni Novanta: non ci sarebbe spiaciuto). “Country Song” è pienamente parte del periodo oscuro della band di “History”.
“Bitter Sweet Symphony” (Hut 7243 8 94360 2 0) contiene la Extended Version della meraviglia pop (per chi davvero non può più farne a meno, e ha sempre sperato che non finisse mai) e due inediti: “So Sister“, indovinata ballata romantica che avrebbe meritato d’essere integrata nell’album, e “Echo Bass“. “So Sister” è il tenue lamento dell’innamorato che confida alla sorella che non sa più cosa inventarsi per recuperare l’amore perduto: angosciato e uncinato al pensiero di lei, si lacera nella nostalgia e vive nell’attesa. “I wrote our names on a subway wall / Just in case you call / I rent a room and its just for two / But where are you?”. Magari non andrebbe ascoltata quando la propria quotidianità ricorda troppo da vicino certi episodi.
“Echo Bass” è la classica b-side superflua e raffazzonata: ha un arrangiamento da club, e un testo fondamentalmente insignificante. L’interpretazione di Ashcroft stavolta mostra qualche debito nei confronti di Morrison.
“The Drugs don’t Work” (Hut 7243 8 94556 2 5) contiene il radio edit della canzone, recentemente restituita alla memoria del pubblico dalla cover di Ben Harper (“Live from Mars”), una eccellente versione inedita, l’original demo, (acustica, da spezzare il cuore ai sassi) e “Three Steps“, una non memorabile reprise dei (rari) momenti fiacchi di “Urban Hymns”: ritmo sostenuto e regolare, senza intervalli e senza impennate; tiepide distorsioni, testo lineare.
“Lucky Man” (Hut 7243 8 94745 2 7) contiene le versioni originali dell’ultimo grande singolo dell’album, della ormai leggendaria (per i cultori, almeno) “History” e una ballata splendida, inspiegabilmente relegata al ruolo di b-side: “Never Wanna See You Cry“. La malinconia degli archi introduce una canzone tra le più ispirate nell’intera produzione della band di Wigan: immaginate “6 O’Clock” ibridata con il respiro di “History”, sprofondata in un abisso di dolore autentico. Eccellente, davvero. Il testo è particolarmente semplice (non è detto che sia un male: è pop): ma è una delle più sentite canzoni d’amore di Ashcroft e compagni, e merita d’essere restituita ad altra luce. Vorrei poterne parlare con altra competenza e altra profondità: vorrei essere un musicista per poterla suonare, almeno una volta nella vita. Il neofita deve assolutamente ascoltarla per riconoscere l’origine del “nuovo” Ashcroft.
“Lucky Man” (Hut 7243 8 94752 2 7) contiene due versioni del brano: l’originale e una intitolata “Lucky Man (Happiness, More or Less)”, spogliata di qualche verso, vagamente psichedelica e piacevolmente distesa.
Gli altri due brani sono la marginale e appena industriale “The Longest Day” e l’interessantissima variazione di Bitter Sweet Symphony, “MSG” – sette minuti di martellante e piuttosto acida contemplazione del capolavoro.
“Sonnet” (Hut 7243 895075 22) è il disco meno interessante in assoluto: contiene il brano originale, “So Sister” e “Echo Bass”, già presenti nella seconda versione del singolo di “Bitter Sweet Symphony”, e la debole “Stamped“, un pezzo notturno e artificialmente disturbato.
DISCOGRAFIA ESSENZIALE e GENESI DEL GRUPPO.
DISCOGRAFIA ESSENZIALE e GENESI DEL GRUPPO.
Urban Hymns, Virgin, 1997.
A Northern Soul, Vernon Yard, 1995.
No Come Down, Vernon Yard, 1994. (b-sides e inedite)
A Storm in Heaven, Vernon Yard, 1993.
The Verve E.P., Vernon Yard, 1992.
All in The Mind, Hut, 1992. (Three tracks single)
Wigan, Lancashire, tardi anni Ottanta. Lo sciamanico chitarrista e cantante Richard Ashcroft(classe 1971), il batterista Peter Salisbury, il bassista Simon Jones, amici sin dai tempi della Upholland High School, incontrano il cupo e introverso chitarrista Nick McCabe, cultore dei Joy Division, all’epoca studente del Winstanley College.
È la nascita d’un gruppo storico della scena indie rock inglese: i Verve.
La band firmò il suo primo contratto con la Hut e debuttò nel marzo del 1992 con l’introvabile singolo “All in The Mind“, seguito, in rapida successione, da altri due singles: “She’s a superstar” e “Gravity Grave”. Larga parte dei brani ospitati nei tre dischi furono ristampati nel primo, omonimo e leggendario E.P.
Siamo, per intenderci, nel periodo in cui i Verve erano definiti “l’essenza liquida del rock’n’roll“. Ottenuti ottimi riscontri sulla scena indie, reduce da una tournée americana al fianco dei Black Crowes, la band di Wigan incise il primo album, “A Storm in Heaven“, annunciato dal singolo “Blue“. Apparso nel 1993, acclamato dalla critica, non rappresentò tuttavia un successo di vendite. La fama dei Verve come band eclettica e atipica(convergenza e fusione di psichedelia e pop) s’accompagnò rapidamente con quella di band “must” dal vivo: negli spettacoli live, Ashcroft era trascinante, estremo e magnetico, calamitava gli spettatori.
Eccessi e stravizi iniziarono ben presto a segnare l’attività del gruppo: Ashcroft più volte ricoverato per l’eccessivo deperimento, Salisbury arrestato per aver distrutto una camera d’albergo, in Kansas. Nel frattempo, Nick McCabe si mostrava sempre più insofferente nei confronti del leader e frontman della band, l’uomo che, per dirla con Gallagher, “As he faced the sun he cast no shadow“: l’incredibile personalità di Ashcroft (appassionato studioso, tra l’altro, della cultura rosicruciana) oscurava il resto del gruppo.
Nel 1995, sotto l’effetto di pesanti quantitativi di extasy, i Verve registrarono un album che sembrava poter rappresentare il congedo della band: “A Northern Soul“. Il disco, nonostante ospitasse brani come “History” e “On Your Own” non ebbe fortuna: soltanto qualche mese dopo, Ashcroft abbandonava la band, salvo poi fortunatamente ritornare sui suoi passi. McCabe, tuttavia, non fu immediatamente d’accordo e venne rimpiazzato da Simon Tong, chitarrista e tastierista, altro vecchio compagno di scuola. Trascorrono due anni: il tempo necessario al transfuga per tornare sui suoi passi, il tempo necessario per ideare il Disco Definitivo. 1997.
“Urban Hymns” è il caso discografico dell’anno. Trascinato dal singolo “Bittersweet Symphony“, cover “spuria” di “The Last Time” dei Rolling Stones (il brano campionava un sample di una esecuzione orchestrale dell’originale), e dalla malinconica ballata “The Drugs Don’t Work“, l’album è stato un successo internazionale. Seduti sul tetto del mondo: fin quando, neppure un anno dopo, Nick McCabe ha definitivamente alzato i tacchi, rompendo per l’ennesima volta con la band. I Verve si sono ufficialmente sciolti nel 1999.
Richard Ashcroft, attraverso una felice collaborazione con il progetto Unkle del Dj Shadow (“Lonely Soul”) e una discreta prova con i Chemical Brothers (“The Test”), s’è avviato ad una carriera da solista: il primo, promettente album, “Alone with Everybody“, pubblicato nel 2000, trascinato dal fortunato singolo “Song for the Lovers“, è stato un successo internazionale.
Il secondo disco, “Human Conditions“, è piuttosto fiacco e deludente: introspettivo ed eccessivamente intimista, segna un momento di transizione.
Peter Salisbury collabora irregolarmente ai dischi di Ashcroft.
Il bassista Simon Jones ha fondato, assieme a Simon Tong e all’ex Stone Roses John Squire (poi sostituito da Dan McBean), un nuovo gruppo: “The Shining” (nome scelto in omaggio al film di Kubrick e al romanzo di King).
Il primo, interessante album, “True Skies“, è stato pubblicato nel 2003.
L’inquietante e talentuoso Nick McCabe ha collaborato con il progetto Faultline e con i Neotropic.
Fonte principale delle informazioni biodiscografiche è stato, oltre al solito, monumentale AllMusic.com, il sito ufficiale della band.
Sito ufficiale dei “The Shining“
Sito non ufficiale di Nick McCabe
Sito ufficiale di Richard Ashcroft