il paradosso delle professioni disabilitanti
Edizioni Erickson
Nuova edizione italiana a cura di Bruno Bortoli
ISBN: 978-88-6137-310-5
Ivan Illich, scrittore, filosofo, teologo di origine austriaca, si presenta come uno di quegli autori capaci di uno sguardo critico sulla società contemporanea, con le sue ambiguità nel campo dell’assistenza sociale.
Il titolo di questa ultima pubblicazione della Erickson, che raccoglie e ripropone in una nuova traduzione alcuni saggi apparsi per la prima volta nel 1977, con alcuni contributi di altri autori che riprendono le tesi di Illich, è provocatorio come le tesi che cerca di sostenere.
“Esperti di troppo: il paradosso delle professioni disabilitanti”, infatti, gira attorno alla tesi centrale che le professioni tipiche del Welfar State, come il medico, l’assistente sociale, l’avvocato, lo stesso manager, sono professioni che rischiano di condurre l’uomo a nuove forme di schiavitù, ingenerando bisogni che in realtà non sono altro che il prodotto di una stretta oligarchia di persone, che, se da una parte si propongono come guaritori, dall’altro lo tengono prigioniero di istituzioni che dovrebbero sanarlo.
E’ interessante in questa prospettiva la visione della Medicina e dell’Istruzione che l’autore propone nel saggio introduttivo al libro.
Da una parte la medicina, riprendendo una tesi di una altra sua opera famosa, Nemesi Medica, ha portato la ricerca della salute ad essere una delle principali cause di malattia: l’uomo non viene curato nella sua globalità, ma viene affidato al lavoro di innumerevoli specialisti, che ne provocano ulteriori bisogni di osservazione e di ricerca di guarigione.
Dall’altra parte la scuola si impone sugli studenti come unico accesso di un sapere preconfezionato, senza il quale gli studenti che non riescono a rientrare negli standard di apprendimento, tendono ad essere esclusi dalla società: il sapere non è più collegato alla vita reale, ma a un “pacchetto di nozioni” che distinguono la normalità o anormalità dei ragazzi e delle ragazze che seguono il percorso scolastico.
Naturalmente, bisogna osservare che le posizioni di Illich, pur nella loro radicalità, non vogliono negare un valore assoluto alle istituzioni che si occupano del benessere sociale dell’individuo, quanto piuttosto denunciare un modo di intendere le professioni sociali, che, se vissute non a partire dalla categoria del servizio all’uomo, quanto piuttosto a partire dalla categoria del controllo sull’individuo, rischiano di essere appunto disabilitanti, cioè di allontanare l’uomo dalla sua capacità di prendere in mano la propria vita per affidarla alle false sicurezze di illusori imbonitori.
Per questo il libro, che si presenta come una lettura abbastanza agile, essendo diviso in saggi abbastanza brevi e pungenti dal punto di vista degli spunti di riflessione, può essere un’ottima occasione per interrogarsi su quei paradossi che, chi lavora nel sociale, come educatori, insegnanti, assistenti sociali, infermieri, medici, avvocati e professioni simili, può trovare molto utile.