Il romanzo d’esordio di Vanessa Jones, classe 1970, laurea in letteratura inglese all’università di Oxford, è già un frutto compiuto, assiepato in un libretto di stampa fitta e minuta. Tale minimalismo trae in inganno.
Si intitola Dodici, come i mesi dell’anno, emblematica scansione del tempo che passa senza senso, lasciando dietro di sé una scia di diffusa insoddisfazione. Il tempo di cui l’A. si occupa non è la dimensione ontologica ed eterna, ma l’oggi, soffocato dai problemi del momento e dalla mancanza di prospettive che non siano l’infaticabile allitterazione di giorni inconcludenti. È l‘oggi della metropoli, probabilmente Londra, inquinata e caotica, soffocata dai rumori, dove gli incontri sono difficili e frettolosi: una città che solo riesce a tenere l’umanità prigioniera di ritmi innaturali, insieme alle cose inanimate. Londra appare alla Jones come un organismo affetto da una malattia allo stato terminale, come un mostro che chiude l’universo, che ansima tra le sue strade senza speranza, in un tunnel per spingerlo perentoriamente in avanti e così facendo, con l’ossessivo ripetersi, getta gli organismi viventi in una sorta di atmosfera irrespirabile.
Un tempo ci rivestivamo di parole, ma adesso la nostra corazza è costituita dalle droghe e dalla batteria di un apparecchio che strombazza musica a tutto volume, che copra la possibilità di pensare lucidamente alla propria condizione.
Il progresso non arriverà, perché la storia come la scienza torna sempre nei medesimi errori e non migliora la ragione. Per questo ogni sforzo di azione è inutile anche se occorre agire lo stesso in qualche modo, per impedirsi di sostare e percepire in maniera inequivocabile il proprio disagio e il proprio smarrimento.
L’insoddisfazione, l’iterazione perpetua dei giorni spingono un’intera generazione a cercare maglie rotte nella prigione, ma l’impossibilità di una fuga inducono a privilegiare piuttosto rifugi precari quali proprio la droga o l’anestesia emotiva, fino alla completa paralisi dell’anima.
Persa la battaglia di rimettere ordine nel mondo, incapaci di rapporti interpersonali duraturi perché dagli altri pervengono solo vibrazioni positive o negative, i protagonisti deragliano ciascuno in qualche baratro, nel tentativo di scegliere un’asta confacente cui ancorare la propria disperazione.
Shirley, la vicina di casa di Lily, colei che si può considerare a buon diritto la protagonista, per esempio, non fa che sperdersi nei suoi doveri domestici, in una nevrotica ricerca di perfezione e sicurezza. Suo padre, invece, non riuscendo a districarsi nei suoi confusi meandri, ha impugnato un’arma e senza pensare ai superstiti ha preferito ammazzarsi.
Più degli altri Lily, avviluppata nel suo rimuginio esistenziale, è cosciente della propria sorte fino a questa ammissione lapidaria: internamente il mio corpo va avanti senza di me. Sono un robot, un meccanismo ad orologeria e andrò avanti finché dura la carica.
Lily si sente all’oscuro di qualcosa. Crede che uno scatto di fantasia e di immaginazione le permetterebbe di sottrarsi all’assurdo della casualità degli avvenimenti, perché davvero tutto accade senza un motivo preciso, ma sa di non possederne le qualità.
Accanto a lei la sorprendente opzione di Colin di cercare una partner con cui riempire il vuoto affettivo, distribuendo bigliettini col suo nome e l’indirizzo sui vagoni della metropolitana alle ragazze che casualmente lo incrociano. Confesserà di impegnarsi di continuo per rendersi la vita difficile, per far sì che passi più lentamente e ingannare il tempo che resta comunque una durata soggettiva, fatta di tante incertezze.
Il numero dodici, che ha dato il titolo all’opera, non indica solo lo scorrere infausto dell’orologio. Il dodici torna come tentativo, in verità appena abbozzato, di reinterpetrare e rimodellare il mondo, indicando quel numero, oltre la durata dell’anno, anche la misura del giorno, del minuto e dell’ora, tanto che il piccolo Olly vorrebbe sulle sue mani dodici dita per un nuovo approccio numerico alla realtà, che non sia più centrato sulla decina.
Non si tratta tuttavia di un romanzo intimista nel senso che si rintraccia nel libro una trama ben dipanata, sostenuta da un vero virtuosismo della scrittura che esita evidenti connotati claustrofobici. La psicologia attendibile e raffinata dei personaggi e le malizie narrative ne fanno un’opera originale quanto compiuta. Intorno alla trama, la J. fa girare il punto di vista dei personaggi, pur privilegiando largamente quello di Lily, i quali raccontano in prima persona, permettendo un’identificazione e una partecipazione maggiore alla storia. Entriamo così nella cucina di Shirley, seguiamo Mary nella fuga dal mondo, sulle orme della zia Stella e soprattutto lo sperdimento di Lily, che sostiene il fardello dell’inutilità della sua vita, assolutamente consapevole che qualunque sia il suo sforzo, nulla di sé passerà ai posteri.